Anteprima Un brano tratto dall’introduzione del nuovo volume di Ernesto Galli della Loggia (Marsilio) Politica in panne, Italia in agonia
L’idea «populista» di portare le masse nello Stato ha permesso ai partiti di far progredire il Paese Conclusa quella stagione, resta soltanto il vuoto
Sono nato italiano ma mi viene da chiedermi, a volte, se morirò tale. Un paradosso insensato? Non tanto, dal momento che nella mia generazione, quella che ha visto la luce durante o a ridosso della guerra, sospetto proprio di non essere il solo che più o meno consapevolmente si pone una domanda come questa. Se mi guardo intorno, infatti, e se capisco ciò che vedo, se intendo bene i discorsi che ascolto, mi sembra che siano molti gli italiani che sentono ogni giorno crescere dentro di sé una sensazione sempre maggiore di spaesamento e alla fine quasi di estraneità. Che vedono ogni giorno scomparire luoghi e figure fino a ieri familiari, svanire principi e istituti, e insieme le più varie appartenenze ideali perdere senso, illanguidirsi e spegnersi. Nel mondo che cambia a un ritmo vertiginoso l’Italia appare avviarsi a un lento tramonto. La sua decadenza ogni giorno si precisa e ci afferra. (...)
Oggi appare quasi incredibile che mezzo secolo fa, dopo una rincorsa strepitosa iniziata subito dopo il disastro della guerra fascista, l’Italia sia arrivata a essere tra le prime sei o sette economie del mondo, tra le società più avanzate del pianeta. Come è stato possibile? La risposta che a me come storico viene da dare suona, con i tempi che corrono, quanto mai impopolare, ma non per ciò meno vera. È stato possibile, in ultima analisi, grazie alla politica. Grazie alle scelte politiche compiute nel corso di cento anni da gruppi dirigenti della più varia formazione, ma tutti partecipi dell’idea che, finalmente riunita in un solo Stato, la penisola avesse qualcosa di peculiarmente suo da dire (e da fare) nel consesso delle nazioni. Forse sono stati tutti vittime di un’illusione. Ma è pure vero che senza essere dominati da un’idea, senza una fiducia cieca che sfiora l’autoinganno, è forse impossibile intraprendere alcunché di grande. Un Paese povero di un’antica miseria, privo di materie prime, abitato da una massa di analfabeti, fu così chiamato a procurarsi quasi dal nulla scuole e università moderne, una grande industria, energia, porti, telegrafi e strade ferrate, una flotta mercantile, magari anche un esercito degno di questo nome.
Su questa strada cominciarono a mettersi per primi quegli stessi che avevano fatto l’Unità. Cavour e gli altri, i liberali che poi tanto liberali non erano (forse perché in un Paese povero è quasi impossibile esserlo davvero). Le prime infrastrutture, il protezionismo, le prime forme d’intervento dello Stato nell’economia, furono opera loro. Subito dopo arrivò il nuovo secolo, esplose il nostro straordinario Novecento. Straordinario non solo per i risultati conseguiti, ma perché alla nuova dimensione di massa della politica giungemmo — e ci restammo per tutto il tempo, si può dire fino a ieri — con culture politiche affatto originali, le quali per le loro caratteristiche non sembrano avere avuto molto in comune, al di là delle denominazioni ufficiali, con quelle analoghe di nessun altro Paese. Non solo, ma socialismo, popolarismo cattolico, nazionalfascismo, comunismo gramsciano, democrazia gobettian-azionista presentano tutti almeno altri aspetti singolari. Il fatto, per esempio, che queste culture politiche, che pure sono state il cuore della vita pubblica italiana, abbiano però tutte preso le mosse — di più: abbiano tratto addirittura la loro ragion d’essere — da una critica aspra nei confronti del Risorgimento, dunque del modo stesso in cui era nato lo Stato che esse si candidavano, o erano effettivamente chiamate, a governare.
In tutte le culture politiche dell’Italia del Novecento, indistintamente, l’atteggiamento polemico verso il passato risorgimentale ha avuto la L’opera dei liberali Ottenuta l’Unità fummo chiamati a procurarci quasi dal nulla scuole e università, una grande industria, energia, porti, magari anche un esercito
Insoddisfazione I movimenti di maggior rilievo del Novecento hanno tutti preso le mosse da posizioni di critica molto aspra verso il Risorgimento medesima motivazione: la mancata presenza in quelle vicende delle «masse popolari» (per colpa, naturalmente, del cieco classismo dei liberali…). Da qui il comune obiettivo di fondo, che tutte quelle culture hanno perseguito quando è venuto il loro turno: «Portare le masse nello Stato». Tutte quante si sono prefisse il medesimo scopo: dopo l’Italia dei notabili, dopo l’Italia dei «signori», fare finalmente un’Italia del popolo. Di un popolo diversamente inteso a seconda di chi avesse provveduto alla bisogna, come si capisce: ma comunque del popolo.
È così che il populismo si è trovato a rappresentare il letto in cui ha preso a scorrere il fiume del Novecento politico (ma non solo) italiano. Di cui quasi istintivamente abbiamo pensato e continuiamo a pensare tutti abbastanza male. Ma, se è permesso dirlo, oggi forse meno di un tempo. Perché alla fine quel populismo (che ha ben poco a che vedere con quello che oggi chiamiamo con questo nome) altro non era che un afflato morale generico ma non spregevole, un desiderio di rompere antiche barriere e albagie di classe, una volontà, sia pure a volte confusa, di migliorare le condizioni di vita dei più e di