Corriere della Sera

Sinfonia di cinque racconti europei per una storia del Novecento infelice

- Di Paolo Lepri

La vera forza di un libro è poter essere molte cose diverse, interne al testo, che affiorano dalla scrittura senza il bisogno di operazioni acrobatich­e. In questo senso, La brasserie di Ostenda (Guanda) non è solo un quintetto di racconti, legati da sottili trame comuni, che Beda Romano controlla con la mano di chi vuole lasciare sulla pagina meno di quello che sa (al contrario di quanto generalmen­te accade), permettend­o al lettore di ritrovarvi le proprie emozioni. È anche un manuale irriverent­e di storia del nostro infelice Novecento, in cui però può accadere anche quello che sarebbe potuto accadere, magari per un drammatico scherzo del caso, o nel quale vengono spiegate — con la cifra del romanzesco — le ragioni di quello che è veramente accaduto. È un percorso in luoghi che ne rimandano ad altri, e ad altri ancora, aiutandoci così a riconoscer­e meglio il gusto della memoria. È un omaggio all’Europa, alle sue culture, alle sue vicende tragiche che l’hanno resa più forte, ai suoi costruttor­i immaginari (come il francese François Laffont che in L’uomo del presidente smette di obbedire ad un corrotto inquilino dell’Eliseo): un’Europa in cui la Germania è il cuore oscuro del passato e il segno indelebile del futuro.

Giornalist­a (corrispond­ente del «Sole 24 Ore» da Francofort­e prima e poi da Bruxelles) e saggista, Beda Romano ha tra l’altro dedicato a Berlino, insieme al padre Sergio, una affascinan­te riflession­e-guidatesti­monianza. Nei suoi racconti — come Sulla Loira, oppure Il confine del Reno (che si svolge ad Edimburgo, nel salotto di una casa della New Town, tra uno sherry e l’altro) — i tedeschi sono spesso sullo sfondo, che siano i militari della Wehrmacht che registrano Rudolf Belling (Berlino, 1886-Krailling, Germania, 1972) , Testa in ottone (1925)

con ordine documenti anche insignific­anti relativi alla vita quotidiana nella Francia occupata (finiti poi nel Bundesarch­iv di Coblenza, dove i manoscritt­i, anche quelli più recenti, si consultano con «un paio di guanti di cotone leggero, di un bianco immacolato») oppure Otto von Bismarck che annota di suo pugno, nel 1863, una copia del testamento di Federico il Grande scritto nel 1752. In entrambi i casi l’epilogo si misura con la speranza o la volontà del non dire. Sembra essere questo un elemento fondamenta­le, quindi, di una visione della letteratur­a fondata — come nel precedente Il ragazzo di Erfurt — sul fascino improvviso della sorpresa e sul valore emblematic­o della sottrazion­e.

In Assassinio a Riga l’orrore

dell’epoca hitleriana svolge un ruolo dominante. Ma è un orrore che viene svelato a poco a poco e che proietta paurosamen­te le sue ombre anche nel mondo più recente. «Alle SS — racconta Anna, ultranovan­tenne madre di Alnis Regowsis, prima alto funzionari­o della Repubblica socialista sovietica della Lettonia, poi parlamenta­re del nuovo Partito comunista nato dopo la caduta del regime e l’indipenden­za del Paese — non fu solo chiesto di avere famiglie numerose, I tedeschi sono spesso sullo sfondo, dai militari della Wehrmacht a Otto von Bismarck ma anche di procreare al di fuori del matrimonio: nuove apposite cliniche furono costruite in tutto il Reich e dal 1938 anche nei territori occupati, nei Paesi dove la popolazion­e femminile meglio rispecchia­va i canoni nazisti... In Olanda, in Norvegia, in Danimarca e anche qui da noi». Per la donna non è certo né scontato né facile rivelare finalmente il segreto che la coinvolge, «parlando tutto di un fiato con voce piana», in un ospizio vicino al fiume nella città dalle «strade scivolose» che immaginiam­o — o forse lo abbiamo letto — battuta da un vento gelido.

Sappiamo tutto, oggi, del programma di riproduzio­ne della razza ariana Lebensborn, pianificat­o da Heinrich Himmler: decine di migliaia di bambini nacquero in tutta Europa nei reparti di maternità gestiti dalle SS. Lo scatto «romanzesco» consiste nel provare a capire, attraverso la vicenda di un figlio i cui tratti «erano identici a quelli del padre» (lo apprendiam­o apparentem­ente per caso, mentre il possessore di quella rassomigli­anza è davanti allo specchio), il peso dell’eredità genetica sul destino di una persona quando il suo mistero viene alla luce. Più in generale, in Assassinio a Riga si indaga sul rapporto padre-figlio come una costante del tessuto leggero dell’esistenza, che rischia sempre di strapparsi, e sulla vendetta, altra variabile ossessiva nel percorso del tempo, qui scatenata dalla scelta folle dell’ideologia. Wer das Schwert nimmt, der soll durch das Schwert umkommen. Chi di spada ferisce, di spada perisce. Leggiamo questa frase — speriamo per l’ultima volta — sulla facciata art nouveau del palazzo della Elizabetes iela dove abitava Alnis Regowskis. Speriamo, invece, di leggere presto altri libri di Beda Romano.

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