«Forse ucciso il capo dell’Isis»
Obama scovò Bin Laden, ora lo zar cerca il colpo
Da Mosca arriva la notizia che Al Baghdadi sarebbe morto durante un raid lo scorso 28 maggio. Ma c’è ancora incertezza sulla sorte del califfo dell’Isis.
Quando Shamil Basayev è l’uomo più ricercato di tutta la Russia e Vladimir Putin il russo che più di tutti lo vuole morto, il capobanda ceceno gli invia un messaggio: «Ti sfido a duello, la scelta dell’arma è tua». Putin risponde solo sei anni dopo: un’esplosione uccide l’ex soldato dell’Armata Rossa — ammiratore di Abraham Lincoln, Giuseppe Garibaldi e Che Guevara — che da fuggiasco era riapparso per rivendicare atrocità come il massacro alla scuola di Beslan.
Che nel 2006 Basayev possa essere stato ammazzato da un errore nel maneggiare il tritolo poco cambia per i servizi segreti — si attribuiscono subito il successo — e per il leader russo che li comanda. Vuole dimostrare di mantenere quel che promette, al costo di sbriciolare con le bombe i palazzi di Grozny o in questi mesi le case di Aleppo. Del destino di Abu Bakr Al Baghdadi sembra abbia garantito: «Lo avrò vivo o morto», il prigioniero o il cadavere da esporre a Mosca per umiliare gli americani che l’autoproclamato Califfo hanno cercato di uccidere almeno un paio di volte. Alla fine di gennaio Donald Trump ha convocato i generali, ha chiesto un piano per cancellare lo Stato Islamico nel giro di un mese. È il suo primo giorno alla Casa Bianca, come ai tempi del predecessore la strategia resta però in bilico tra smobilitare e intensificare l’intervento.
L’uccisione di Osama Bin Laden la notte del 2 maggio del 2011 rappresenta il trionfo militare di Barack Obama e in qualche modo la giustificazione che il presidente cerca per concretizzare il disimpegno progressivo dalla regione. Dagli attentati alle Torri Gemelle sono passati nove anni, otto mesi e i 40 minuti del raid effettuato dalle forze speciali, la missione sembra davvero compiuta. Per intuire le sue intenzioni, Putin non ha bisogno di sofisticate apparecchiature di intelligence, la voglia di andarsene dal Medio Oriente è annunciata e proclamata. Il vuoto di potere e il caos che lo sta riempiendo preoccupano il Cremlino. Quanto l’offensiva dei radicali islamici e il rischio che si espanda verso il Caucaso, i fondamentalisti hanno già compiuto in passato il viaggio di andata e ritorno dalla Cecenia.
Se la notizia fosse confermata, se il bombardamento di 10 minuti avesse davvero eliminato il Califfo e i suoi comandanti più fedeli, la scommessa siriana di Putin continuerebbe a pagare i dividendi diplomatici e politici (assieme a 25 milioni di dollari, la taglia promessa dagli Stati Uniti). Il 30 settembre del 2015 il presidente russo ordina ai generali di dispiegare uno squadrone di Sukhoi nella base aerea di Latakia a sostegno di Bashar Assad, in patria la radio Kommersant proclama che i sostenitori del dittatore lo glorificano e lo chiamano Cesare. È quello che Vladimir vuol sentire. «Le alleanze russe sono basate sul cinico realismo — scrive Amir Handjani, analista del Truman National Security Project —. Putin si sente affrancato dalle intese del passato, libero di scegliere i soci strategici che servono agli obiettivi». Si immerge nel disordine della guerra civile cercando di non sprofondare. Accompagnato dal consiglio di Ariel Sharon: il premier israeliano morto tre anni fa gli aveva raccomandato — rivela Putin nell’intervista a Oliver Stone — «in Medio Oriente non fidarti di nessuno». E dopo aver studiato la lezione di Yuri Andropov, suo ex capo al Kgb: riempire gli spazi lasciati scoperti dalle incertezze occidentali, stringere accordi con i complici locali, riguadagnare influenza globale.