Corriere della Sera

Erika temeva la piazza affollata «Era con me per farmi un regalo»

Il fidanzato della donna uccisa dalla calca a Torino: «Le scuse non bastano»

- Marco Bardesono Giusi Fasano

TORINO Fabio è così sfinito che per una volta dopo tanti giorni concede qualche battuta. Si lascia andare un minuto e risponde mentre cammina piegato dalla stanchezza e dallo sgomento nei corridoi dell’ospedale Giovanni Bosco di Torino.

Erika ha smesso di vivere dopo 12 giorni di coma, ha respirato per tutto quel tempo la sua non-vita dopo essere stata travolta dalla calca senza senso di piazza San Carlo, durante la finale di Champions Juventus Real Madrid.

Erika non c’è più ma è qui accanto a lui, Fabio la vede come fosse adesso mentre gli dice «ti porto a vedere la Juve». Era il 3 giugno, il giorno del disastro torinese. «Era il suo regalo per il mio trentottes­imo compleanno — spiega lui —, doveva essere una festa e invece sono qui senza più lacrime per piangere».

La mente cambia obiettivo. Quest’uomo che di cognome fa Martinoli e che nella vita installa serramenti, guarda Giulio, il padre di Erika e racconta d’un fiato: «Ci hanno detto che hanno fatto il possibile, che non potevano immaginare che sarebbe successo tutto questo. Ci dicono che gli dispiace. Ma come ti dispiace? Io non avevo idea di cosa avrei trovato in piazza ma certo non era quello che avevo immaginato: era tutto disorganiz­zato, c’erano i venditori abusivi, entravano tutti senza alcun controllo, c’erano bottiglie dappertutt­o. Siamo un Paese così, non abbiamo imparato nulla. E sì che bastava copiare quello che avevano fatto gli spagnoli con la proiezione dentro lo stadio... E invece qui è come se la sindaca avesse lasciato aperta la porta di casa sua senza rendersi conto che entravano trentamila persone. E quando il fattaccio ormai è accaduto dice: “Scusate, mi spiace, pensavo sarebbero venute solo due persone per un caffè”. Ecco: “Mi spiace” sono due parole che non si possono sentire».

Non ci sono scuse da accettare e non c’è rassegnazi­one possibile per Fabio che da ieri è in una casa vuota, a Domodossol­a, senza più Erika, sua compagna di vita da quasi cinque anni (38 anni come lui e di cognome Pioletti).

Lei faceva l’impiegata in uno degli studi di commercial­isti più importanti della città. Una vita semplice, riservatis­sima, aperta a pochi amici e con pochi giorni speciali da mettere in cantiere. Il 3 giugno era uno di quei giorni.

Domenica Romeo, amica da vent’anni di Erika, ha scritto e diffuso sui social e via WhatsApp una lettera per ricordarla: «L’ultima volta che ci siamo viste — scrive — mi hai detto: ho paura ad andare, un posto così affollato, con tutti questi attentati... speriamo bene. Ora le tue parole sembrano una premonizio­ne. Ti ho rivista in ospedale attaccata a quelle macchine... come faccio adesso senza di te?»

Il padre di Erika si chiama Giulio, una vita da barbiere nella Val D’Ossola. Ieri mattina, accanto a Fabio, diceva «certo che chiedo giustizia. L’ho detto anche a chi sta facendo le indagini: voi fate il vostro lavoro, ma in Italia si sa come vanno a finire certe cose...». «Siamo molto scossi e siamo stanchi, tanto stanchi» è stata invece la sola cosa che è riuscita a dire la sorella di Erika, Cristina.

Tutto questo mentre via Twitter l’allenatore della Juventus Massimilia­no Allegri ha scritto «morire così a nemmeno di 40 anni, è davvero assurdo, non ci sono parole».

Non vale nemmeno la parola «scusa», come dice Fabio. Adesso è tempo di tacere.

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Impiegata Erika Pioletti, 38 anni, rimasta ferita in piazza San Carlo e deceduta giovedì sera

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