La necessità di osare
Nelle conversazioni sul teatro, anche tra critici, e a maggior ragione con spettatori tra i più fedeli, è pura fatica ciò che mezzo secolo fa era normale. Come chiamare il teatro che tanti non riconoscerebbero immediatamente come tale? Teatro di sperimentazione? D’avanguardia? Alternativo? Ma alternativo a cosa? Nessuna di queste dizioni è più pronunciabile, sono anzi proibite, pena l’essere considerati nostalgici o culturalmente arretrati. È forse accettata la formula «teatro di ricerca»: è la più neutra, indolore. Ma solo l’aver scritto indolore, molto ci dice non sulla pericolosità della formula (o meglio del concetto, della cosa) ma sulla sua necessità. Non è necessario il teatro, esso bene o male c’è. C’è perfino in Italia, senza una legge che abbia validità e rigore. E in un contesto evanescente, e in una realtà che va rapidamente degradandosi, c’è perfino un teatro di ricerca. Ma cos’è tale teatro? Quali basi culturali esso possiede e rivela? Chiunque oggi esca dagli schemi del teatro tradizionale osa — più di quanto si osasse negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso. Mette in gioco la sua sopravvivenza come artista e, prima di tutto, la sua riconoscibilità, il suo valore: essere sceso in campo senza rete di protezione — del già visto, del già detto, del già conosciuto.