Corriere della Sera

Addio al premio Oscar «papà» di Rocky Trasformò in eroi i perdenti di Hollywood

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Se c’è un autore che incarna l’idea che il film (a volte) può essere un’arte ma il cinema invece è sempre un’industria, questo è John Guilbert Avildsen, nato 81 anni fa, il 21 dicembre 1935 a Chicago, Illinois, e morto ieri a Los Angeles per tumore al pancreas, come ha dichiarato il figlio.

Da una parte infatti Avildsen è stato per i moltissimi fan del campione di boxe il regista di Rocky che nel ’76 ha dato il via alla fama palestrata di Stallone (che scrisse il soggetto in tre giorni con una penna Bic e non è che non si veda), uno dei titoli e dei personaggi che rimangono nell’olimpo del business italo americano di Hollywood. Dall’altra la sua vena di autore interessat­o alla società e ai costumi in un momento di profondo cambiament­o, lo ha fatto debuttare nel ’70 con un bel film a basso costo (e basso incasso), La guerra privata del cittadino Joe con Peter Boyle nel ruolo inedito di un operaio, ritratto di un Paese intolleran­te, razzista, in crisi di identità, un film che è un fiore del mazzo sessantott­ino.

Così com’è medio, mediocre e rancoroso il cittadino Harry (uno strepitoso Jack Lemmon al suo secondo Oscar) di Salvate la tigre, ’73, schizzo di un’America amara ferma allo stop in cui non ci sono più segnali né certezze. Ma non c’è dubbio che la fama di Avildsen — che ha comunque all’attivo 25 titoli fra cui La formula, fantapolit­ico sull’energia con una strapagata comparsata di Brando e il grottesco I vicini di casa con i ragazzacci BelushiAyk­royd, altre volte baciati dal successo — stia nella formula vincente e retorica di Rocky con la sua corsa, il suo refrain, il suo andamento da macho che si è appena svegliato. È la rinascita del campione, la fiducia in sé e nel proprio Paese di ogni americano, nonostante il Vietnam e i figli dei fiori, i capelli e il sesso aggrovigli­ato: girato in 28 giorni e low budget, il film è uno dei cult del cinema sul ring, anche se durante la lavorazion­e Stallone pensava a un flop che sarebbe uscito solo d’estate in qualche drive-in dell’Arkansas.

Invece com’è noto la redenzione di Balboa con vittoria su Apollo Creed (e poi di altri, seguendo i nemici storici Usa) fu un successo globale. Merito anche del cast diviso tra vecchie e nuove glorie (Burgess Meredith e Burt Young, ma anche Talia Shire, sorella di Coppola) e la colonna sonora di Bill Conti, che mandò di nuovo in circolo i paesaggi di Filadelfia e il sogno americano del self made man in allenament­o.

Tanto che quel primo film, con molte qualità narrative e di ritmo, generosame­nte ricompensa­te dall’Academy (tre Oscar: film, regista, montaggio), fu inseguito da molte copie e sequel diretti dallo stesso È stato anche il regista di «Karate Kid», i tre episodi sul riscatto grazie alle arti marziali attore sceneggiat­ore sempre più a corto di idee, mentre Avildsen tornerà sul set solo nel 1990 al quinto episodio, dove Rocky è sul lastrico ma il figlio è il vero rampollo di Stallone e la saga si concluderà nel 2006 (ma mai dire mai).

Avildsen è stato un bravo direttore di attori, amava i personaggi non allineati, quelli che escono dal nulla, dalla chorus line dei ceti medi (anche il road country Un uomo da buttare con Burt Reynolds) ed aveva fatto la gavetta nel cinema americano arrabbiato Anni 60 di Penn e Preminger. Ma fu divorato dal successo seriale: non solo Balboa, anche un altro giovane campione, Ralph Macchio con i tre episodi di 1984 Il giovane Ralph Macchio e Pat Morita in «Karate Kid» Karate Kid dall’84 all’89. È sempre il sogno di vincere, un’arte marziale addolcita dalla giovane età del mini divo, uno dei Ragazzi sulla 56ma strada di Coppola e un pizzico di misticismo giapponese multiuso.

E se non avesse litigato coi produttori che lo licenziaro­no in tronco, Avildsen sarebbe stato anche regista di Serpico e La febbre del sabato sera, mentre poi la sua carriera andò a zig zag con eccessive razioni di sentimenta­lismo come nel melò Ballando lo slow nella grande città ma ritrovando un’impennata ideologica in La forza del singolo sul Sudafrica degli Anni 30 e 40.

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