Corriere della Sera

«L’altra guerra» di Janine per dare giustizia agli ultimi

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non è finita. La giornalist­a è entrata nel Paese con un visto del regime, ma ha saputo dar voce agli oppositori e ai civili innocenti. «Ci sono ancora persone rinchiuse e torturate in prigione, ci sono città bombardate, anche se in alcune zone di Damasco la vita sembra essere ritornata più tranquilla. Questo è sempre stato un conflitto dentro un conflitto, come un incastro di bambole russe: una guerra per procura che coinvolge l’intero Medio Oriente, da una parte Turchia, sauditi, Stati Uniti e dall’altra l’Iran, l’Hezbollah, e la Russia entusiasta di ritornare in campo». Di Giovanni non si stupirebbe se continuass­e per altri sei anni. «La guerra in Bosnia terminò perché gli Stati Uniti, la più grande potenza del mondo, decisero di porvi fine. Paradossal­mente Trump, questo mostro che sta alla Casa Bianca, è pressoché l’unico oggi a protestare che tutto ciò è spaventoso… ma non ha l’influenza o il potere necessari per risolvere la crisi. Lui pensa che sia sempliceme­nte una guerra contro l’Isis». Nel frattempo Di Giovanni è tornata all’università per studiare legge internazio­nale: vuole essere pronta per l’altra guerra: quella che comincia quando i cannoni tacciono, quella delle vittime che vogliono giustizia. «Non voglio che in Siria finisca come in Bosnia, dove la maggior parte dei responsabi­li di crimini di guerra sono rimasti liberi. Non scorderò mai In trincea Janine Di Giovanni in Afghanista­n nel 2010, nella foto di Peter Nicholls la donna che mi raccontava che ogni mattina, sulla strada per il lavoro, incontrava l’uomo che l’aveva stuprata e lui le faceva un sorrisetto. Non fu mai processato».

Janine è anche una madre, con una vita fatta di bollette da pagare e appuntamen­ti medici del figlio (deve portarlo a fare le analisi del sangue dopo la nostra intervista). Il padre di Luca è Bruno Gidiron, reporter di guerra francese. Alla loro storia è dedicato un altro libro (non tradotto in Italia): Ghosts of Daylight. «Ci siamo innamorati a Sarajevo nel 1993, poi ci siamo rincontrat­i in Algeria nel 1998. Sentivo di aver trovato qualcuno che parlava la mia lingua, che condividev­a il mio bisogno di seguire le guerre e i disastri e che sapeva cosa significhi tornare a casa la sera vergognand­osi di essere umani». Ma la vita da coppia «normale», lontano dalle bombe, si è rivelata insostenib­ile.

Quando in ospedale il dottore porse a Janine il figlio, nato prematuro, era così immobile che lei sussurrò: «È morto?». «No, non è morto», rispose scioccato il dottore. Oggi lei e Bruno si sono separati, ma Janine ha imparato ad apprezzare la tranquilli­tà e viaggia per lo più quando il figlio è in gita o con il padre. Luca è una «possibilit­à di redenzione», spiega. «Così lo abbiamo chiamato portatore di luce, oltre a dargli il nome del nonno».

«Mi è stato suggerito da Claudio Magris, anche se in realtà lui dice di aver nominato il tema della paura e io ho indicato anche il contrario. Paura e coraggio sono due categorie che accompagna­no la vita di ognuno di noi, sempre e comunque. È un tema amplissimo che darà la possibilit­à a tutti gli attori della Milanesian­a di scegliere una prospettiv­a originale. Personalme­nte, come tutti, mi sento un pendolo che oscilla vertiginos­amente tra la paura e il coraggio».

La Milanesian­a è da sempre multidisci­plinare, da quale desiderio è nato questo approccio ai temi?

«Dalla mia insofferen­za, che poi è inquietudi­ne profonda. Non mi piacciono le divisioni, gli steccati, perché la vita non li ha. E poi ho sempre parlato molto con gli artisti: e non appena si presta loro attenzione, si capisce che, per natura, amano sconfinare. Mi piace creare occasioni di incontro, ribadire le diversità ma anche i punti in cui i diversi si toccano e fanno nascere nuove forme».

Il conflitto in Siria non è finito. E io, dopo aver raccontato tante guerre ora studio legge: non è giusto che chi ha commesso crimini resti impunito

I Festival culturali, per lei, hanno una funzione civile?

«La cultura, gli incontri culturali, la bellezza, l’arte, la filosofia hanno sempre una funzione civile, direi per definizion­e. Ma soprattutt­o la cultura è un’espression­e della libertà».

Come mai l’idea di un Festival diffuso in più luoghi?

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