«I veti personali stanno bloccando il centrosinistra»
Sono i veti personali a bloccare tutto nel centrosinistra, non la politica». Così Romano Prodi commenta i suoi tentativi di incollare i cocci di quella che fu la maggioranza. Un ruolo da confessore tra incontri e consigli.
«Avolte mi sembra di essere un confessore...». Romano Prodi lo ripete con un filo di autoironia. Ma ha la consapevolezza che i suoi tentativi di incollare i cocci del centrosinistra, finora, non hanno fatto passi avanti. Con pazienza cinese, ha incontrato i protagonisti di questo interminabile psicodramma. Ha ascoltato rimostranze, più che ammissioni di peccati. E non ha dato penitenze; al massimo misericordiosi consigli a ragionare, a capire le ragioni altrui. Matteo Renzi, Giuliano Pisapia, Enrico Letta, Carlo Calenda, Laura Boldrini, per nominarne solo alcuni: tutti beneficiari di confessioni a domicilio, per le quali a volte il Professore ha avuto come assistente l’amico di sempre, Arturo Parisi.
Se non apparisse un’attività rubata al Papa, si potrebbe dire che sta cercando di gettare ponti fra tribù di fratelli-coltelli. «Quello che mi ha sorpreso», spiega, «è che non esistono vere divergenze sulla strategia e sulle politiche. A bloccare tutto sono i veti personali: tantissimi contro Matteo Renzi. Ma anche quelli di Renzi contro altri». Muri costruiti sulle macerie dei rapporti umani. Muri di diffidenza, di sfiducia: così spessi da rappresentare il vero ostacolo alla ricomposizione del centrosinistra. Con Calenda infuriato perché il segretario dem avrebbe mandato Luca Lotti a mediare, per poi smentirlo.
Sono questi strappi nei quali si imbatte in continuazione l’ex presidente della Commissione europea e fondatore dell’Ulivo: i più difficili da ricucire. Prodi si rende conto di avere un ruolo paradossale. «Quando la gente mi incontra, le madri mi chiedono quale sarà il futuro dei loro figli e magari si fanno pure un selfie, non penso che in realtà vogliano il mio ritorno. Sono il primo a saperlo e a non volerlo. Piuttosto, ho l’impressione che riflettano la paura di una società senza più bussola, e la loro delusione per la politica di questi anni. È nostalgia per quello che ricordano come meno peggio».
Eppure, oggi risulta l’unico interlocutore accettato da tutti: il solo con il quale parlino e dal quale accettino critiche, o fingano di farlo. Forse perché premette di ritenersi fuori dai giochi, per questioni anagrafiche e non solo. Perché incarna un’epoca di vittorie della sinistra, seppure effimere. Soprattutto, perché riempie il vuoto lasciato da un Pd dove il dialogo sembra ostruito dalla fedeltà al segretario e dal timore di traumi interni. Ma anche perché tenta di ridurre le pulsioni del resto della sinistra, che reagisce a Renzi con le scissioni e con una tentazione pericolosa a rinchiudersi in un’identità passatista.
Prodi teme questa deriva. Stima l’ex sindaco di Milano Giuliano Pisapia. Ha incoraggiato la sua strategia di riaggregazione della nebulosa al di fuori del Pd. Ma non si capisce ancora quale equilibrio Pisapia riuscirà a costruire: con chi, e con quali rapporti con il partito renziano. Il fondatore dell’Ulivo, e non solo lui, gli aveva consigliato di annullare la manifestazione di piazza Santi Apostoli, a Roma. Era stata programmata per il 1° luglio nei giorni in cui sembrava che si precipitasse verso elezioni anticipate in autunno. Ora che le urne scivolano verso il 2018, il rischio di dare un’immagine distorta dell’operazione si intuisce con chiarezza.
Il rinvio è impossibile. E allora Prodi, «confessando» Pisapia, gli ha suggerito di presentarsi sul palco da solo, «senza cognomi ingombranti intorno». Senza, insomma, dare l’impressione di essere usato o strattonato politicamente dagli scissionisti di Articolo 1-Mdp, o da altri, in chiave puramente antirenziana. Gli ha fatto notare che i suoi alleati hanno bisogno di lui più di quanto Pisapia abbia bisogno di loro. Ma è comunque difficile che la ricucitura riesca. Prodi teme che quando si tratterà di indicare il candidato premier, i veti riemergano in modo lacerante.
L’ipotesi del segretario-premier, a suo avviso, non funziona. Meglio sarebbe, per lo stesso Renzi, scindere le due cariche indicando un leader di partito tipo il ministro Graziano Delrio, meno divisivo. E questo nonostante, ripete Prodi, «molti dicano tuttora di Renzi, di fronte alle divisioni: “ma almeno c’è lui”, e lo sostengono». Ma quello di oggi è un Renzi rapito dall’idea di tornare a Palazzo Chigi; rilegittimato dalle primarie ma con un pezzo di Pd in fermento, e i ballottaggi di domani in agguato. Dopo le Politiche del 2018, Prodi non vede probabile una maggioranza Pd-FI, che costerebbe milioni di voti al partito renziano.
L’unica speranza è che il tempo incrini i muri a sinistra, e induca a capire che ognuno deve cedere qualcosa. Altrimenti, non solo si prepara un suicidio politico collettivo: l’instabilità saboterebbe l’accenno di ripresa dell’Italia. Prodi ricorda quando da premier andò a trovare l’allora cancelliere Helmut Kohl, nella vecchia capitale tedesca, Bonn. «Alla fine Kohl mi disse: “La prossima volta chi mi verrà a salutare”? Vedeva l’Italia sempre in bilico. Ecco, il fatto che non si sappia chi verrà dopo Paolo Gentiloni, che non si conoscano né il sistema elettorale né le alleanze, mi preoccupa molto...». Si parla di correzioni alle norme emerse dalle Consulta per Camera e Senato.
L’impressione, però, è che Prodi speri in qualcos’altro, di qui al 2018. La sera di giovedì 22 giugno, a Fano per presentare il suo saggio, Il piano inclinato, un sostenitore voleva chiedere alla moglie, Flavia, se avrebbe dato via libera a una ricandidatura del marito a Palazzo Chigi. Ma la signora Prodi non lo ha sentito: era appartata, a parlare con l’industriale Francesco Merloni, ex ministro e amico di una vita del Professore, e con don Luigi Ciotti, il sacerdote antimafia. Prodi era dieci metri più in là, sotto i portici della piazza gremita. Seduto davanti a un tavolino, firmava copie del suo libro. Le persone, in fila indiana, aspettavano il turno in religioso silenzio: come se andassero a confessarsi anche loro.
Non conoscere le alleanze, né la riforma elettorale, né chi verrà dopo Gentiloni mi preoccupa