Le due vie davanti a Vicenza e Veneto: l’opzione Intesa o il Fondo di garanzia
L’indirizzo su cui orientare la bussola per le due banche venete per ora non è il civico 29 della Kaiserstrasse di Francoforte, sede della Banca centrale europea, da dove ieri è arrivato disco verde alla liquidazione. È via Bonaventura Zubini 51, Cosenza. Lì aveva sede Banca Brutia, il solo istituto mai passato attraverso la procedura che oggi hanno di fronte a sé la Popolare di Vicenza e Veneto Banca. Accadde il 18 febbraio 2016 e pochi fuori da Cosenza se ne sono accorti. Solo che Brutia aveva due sportelli e le venete, al 31 dicembre scorso, 982. Per questo forse non sarà chiaro cosa esattamente vada fatto per gestire il dissesto di due aziende che presentano passività, cioè debiti, per 57,8 miliardi di euro. Ma è chiarissimo ciò che non va fatto: credere a chi dice di conoscere soluzioni lineari e di poterne prevedere le conseguenze. Nessuno può.
Del resto sono rimaste solo due vie verso la liquidazione, dopo che le altre opzioni sono cadute una dopo l’altra. È fallito il paradossale tentativo del 2013 di trasformare magicamente debito in patrimonio, quando le due banche venete prendevano in prestito denaro, quindi lo prestavano a loro volta a decine di migliaia di piccoli soci inducendoli a investire quei soldi in azioni delle banche stesse a prezzi assurdamente gonfiati; la Bce, non appena ereditati i poteri di vigilanza da Banca d’Italia, ha cancellato il capitale costruito in quel modo. Poco più di un anno fa è fallito (per fortuna) anche il tentativo di collocare in Borsa le azioni di due aziende che, negli ultimi tre esercizi, hanno perso nel complesso 7,4 miliardi di euro e di fatto erano già in dissesto. È risultata poi insufficiente, di fronte alla massa delle perdite sui crediti, l’infusione di 3,5 miliardi del resto del sistema finanziario italiano attraverso il Fondo Atlante. E si è arenato questo mese anche il penultimo tentativo, una ricapitalizzazione pubblica «precauzionale»: nel diritto europeo, lo Stato potrebbe rafforzare in via preventiva banche fragili purché non fallite, e le due venete non rientravano nella categoria. Infine, negli ultimi giorni è andata deserta anche un’asta per vendere a pezzi i due gruppi ai migliori offerenti. Sembra che la voglia di partecipare di Iccrea, la federazione del credito cooperativo, sia stata raffreddata dalla Bce a tutela della banca stessa.
Dunque restano ormai solo due opzioni aperte. È qui che un esame dei fatti dovrebbe indurre in tutti un po’ di umiltà. La prima opzione è una liquidazione delle due banche venete sul modello Brutia, cioè in toto. Significa che il Fondo interbancario di tutela dei depositi — finanziato dallo stesso sistema bancario — interverrebbe a rilevare e rimborsare entro trenta giorni tutti i depositi fino a 100 mila euro; chi ha più di quella cifra perderebbe la parte sopra 100 mila. I commissari liquidatori molto probabilmente sarebbero poi costretti a sospendere i pagamenti sul totale dei 57,8 miliardi di passività delle banche, in attesa di una vendita a pezzi dei crediti buoni e cattivi e delle filiali per monetizzare quanto possibile. Nessuno oggi sa che impatto avrebbe sulla fiducia e sul resto del sistema bancario una sospensione dei pagamenti di queste dimensioni, per un tempo imprecisato, nella regione più produttiva d’Italia. Ma chi promette che non ci sarebbe un contagio così forte da stroncare la ripresa nel Paese mente, perché non può saperlo. Sembra molto probabile il contrario, mentre lo Stato dovrebbe versare una decina di miliardi per assorbire le perdite e coprire i costi di chi avrà perso il posto a Popolare Vicenza e Veneto Banca.
Resta poi da vedere cosa succederebbe sui conti della clientela. In tutto al 31 dicembre Vicenza e Veneto avevano 23,9 miliardi di depositi e parrebbe che circa un terzo dei conti abbiano ancora una parte non garantita sopra i 100 mila euro (sa- rebbe utile se il Fondo interbancario, quando possibile, rendesse noto il dato). Proprio il Fondo rimborserebbe tutti i depositanti e li sostituirebbe come unico grande creditore a vista delle due banche — per ben oltre 15 miliardi — quindi aspetterebbe la liquidazione per rientrare quanto possibile del suo credito. Nel frattempo, secondo un’interpretazione accettata nelle istituzioni, le banche italiane finanziatrici del Fondo dovrebbero segnare nei propri bilanci una perdita complessiva pari alla somma dei depositi compensati. Essa eroderebbe il patrimonio e esporrebbe gran parte del sistema bancario italiano a nuove richieste di ricapitalizzazione da parte della Bce. Partirebbe così un nuovo giro nella spirale di crisi del credito; a maggior ragione, se le autorità informassero con trasparenza sulle regole che governano questi meccanismi aiuterebbero tutti a comprendere le scelte fatte o evitate.
Proprio per scongiurare lo scenario traumatico di una liquidazione in toto si lavora all’altra opzione: Intesa Sanpaolo, leader di mercato in Italia, offre un euro per comprare tutti i depositi e tutti i crediti di buona qualità delle due venete. Solleverà polemiche, perché nel frattempo i contribuenti
dovrebbero pagare circa 12 miliardi per finanziare la parte in dissesto delle banche. Certo i manager d’Intesa non possono essere criticati perché fanno il proprio mestiere, che è creare il massimo valore per i propri azionisti. Qualcosa di simile è accaduto di recente quando Ubi o Bper in Italia e Santander in Spagna hanno comprato banche in dissesto a un euro. È il paradosso europeo: dal 2016 l’Unione bancaria dà poteri così assoluti e immediati a Bruxelles che la direzione Concorrenza della Commissione Ue detta legge rifiutando di mettere per iscritto qualunque sua richiesta. Può ridiscutere tutto, sempre. L’idea (corretta) è proteggere il denaro dei contribuenti nei salvataggi. Ma il risultato, imprevisto, che i governi sono ormai così privi di potere che solo i soggetti finanziari forti decidono. Per sé e per tutti.
I conti Sono 23,9 miliardi i depositi delle 2 banche. Un terzo dei conti oltre i 100 mila euro