GLI ATTORI (E LE ATTRICI) QUESTI DIMENTICATI DAI CRITICI DI CINEMA
Ache cosa servono i festival? Le delusioni provocate dall’ultima edizione di Cannes hanno riacceso il dibattito, quasi che il compito di queste manifestazioni — ormai diventati carrozzoni multimediali, dove i film sono l’ultima delle preoccupazioni — fosse solo quello di portare sotto i riflettori il meglio delle prossime stagioni. Per fortuna alcuni festival, favoriti dalle loro dimensioni meno mastodontiche, hanno iniziato a battere altre strade, accompagnando alle proiezioni anche momenti di riflessione e di confronto. In questi giorni, al Festival di Pesaro, si è iniziato ad approfondire il ruolo dell’attore nella costruzione dell’identità cinematografica. Da sempre la critica ha abituato gli spettatori a privilegiare il ruolo della regia. Deformazione professionale e insieme pigrizia intellettuale, come fossimo tutti più o meno d’accordo con Hitchcock che considerava i suoi attori «bestiame» da trattare col bastone e (raramente) con la carota. La realtà è sempre stata molto diversa, fin dai tempi in cui Carl Laemmle, il mitico fondatore dell’Universal, sosteneva che il novanta per cento del pubblico andasse al cinema per vedere i suoi attori preferiti. E il restante dieci per cento? Li accompagnava! Da allora sono passati un centinaio d’anni ma salvo rare eccezioni la critica della recitazione al cinema non ha fatto molti passi avanti. Ce lo ricorda Mariapaola Pierini proprio da Pesaro quando cerca di rimettere al centro della critica il «discorso sulla recitazione», l’analisi di come sono dette le battute e si usa il corpo per recitare. Una situazione che ha finito per sfruttare l’attore (e l’attrice, naturalmente) per la sua carica divistica ma ha continuato a relegarlo ai margini dell’attenzione critica. Specialmente in Italia dove, per usare ancora le parole della Pierini, «gli attori sono una figura ingombrante ma sfuggente e la recitazione una faccenda un po’ misteriosa e quindi trascurata». Per quanto ancora?