Corriere della Sera

Nel «buen retiro» di Muti Tra musica, burattini e memorabili­a dei grandi incontri La vita del maestro con un tocco esotico

- Valerio Cappelli

el soggiorno trovi la batteria di Riccardino, uno dei quattro nipoti del maestro. I loro volti sono fotografat­i sui cuscini del divano, il piccolo Riccardo ha voluto essere ritratto con accanto lo stemma della Juventus, e i nonni, soprattutt­o lui che non capisce un mestiere fatto con i piedi, hanno dovuto accettare il suo desiderio sportivo. I nonni sono Cristina e Riccardo Muti. Il quale apre per la prima volta la sua casa di Ravenna: «La mia prima e unica casa, ci abitiamo dal 1976». Si rivolsero all’architetto Piero Berardi, che la ridisegnò mantenendo la divisione degli spazi, dando «un sapore vagamente toscano».

Il grande direttore d’orchestra racconta che sua moglie Cristina ha la mano d’oro per le case, sa come arredarle, secondo un gusto personale, recuperand­o gli oggetti di una vita. Colpisce il lungo corridoio esotico che porta alla sala da pranzo: contenitor­i che racchiudon­o le sabbie dei diversi deserti visitati, conchiglie, ricordi delle Mauritius e delle Seychelles. E poi curiosi strumenti musicali: una pipa cinese che gli fu donata a un concerto di Capodanno a Vienna, tamburi, il cappello cinese fatto di tante piccole campane e campanelli intorno a una specie di copricapo, che risale a «un concerto alla Scala in cui diressi la Sinfonia funebre e spirituale di Berlioz. Berlioz usa questo strumento a percussion­e di origine turca adoperato dalle bande napoleonic­he». Lo vide in Egitto a un concerto dell’Amicizia del Ravenna Festival, e lo fece ricostruir­e in Italia da una fabbrica toscana di campanelli.

In soggiorno, vicino a un grande presepe napoletano che sembra la scenografi­a di uno spettacolo, ci sono le foto: con la regina Elisabetta che ha in mano l’onorificen­za di Knight Comander of British Empire donata a Riccardo Muti, e poi con Balthus, Strehler, Versace, Armani, Gorbaciov, Kleiber e Zaccagnini, il leader della Democrazia Cristiana che era amico fraterno del padre di Cristina, Giordano, dentista e burattinai­o. Salendo di un piano appare intatto il suo teatro di burattini con centinaia di maschere che Giordano animava, diavoli e fate, personaggi sinistri e della commedia dell’Arte, Fagiolino e Sandrone, Rasputin e Gesù Cristo.

Siamo nello studio del maestro. Illustrand­oci le marionette, Muti, con uno dei suoi guizzi ironici, dice che «è il pubblico più rispettoso del mondo, ascolta nel silenzio più religioso». C’è l’abito scuro che il sarto Umberto Tirelli gli donò del Casanova «di» Donald Sutherland, «con quel senso di vecchiaia e pesantezza che voleva

Fellini»; ci sono ritratti di Verdi, Puccini, Dante che a Ravenna riposa. E della Divina Commedia Muti colleziona tante edizioni (una tascabile è del 1823). C’è la foto con le firme dei musicisti della Chicago Symphony Orchestra che scrivono «Un sogno diventato realtà», a proposito della sua nomina come loro guida. E poi la riproduzio­ne della targa «Riccardo Muti Library» con cui l’Orchestra di Filadelfia chiamò la Biblioteca; o la firma del grande pianista Sviatoslav Richter sopra uno suo errore dovuto a un vuoto di memoria, «Ogni volta devi ricordarti che qui ho sbagliato», gli disse. In una cornice l’attestato dell’Associazio­ne nazionale dei carabinier­i, di cui lui è socio benemerito. Pulcinella portafortu­na è ovunque (è la casa di un uomo profondame­nte meridional­e), c’è una scritta in cui dice: «La felicità si basa su quello che tieni, non su quello che vorresti avere».

Ma è la musica ad occupare gli scaffali più importanti: partiture rare, prime edizioni delle Sinfonie di Beethoven, il pianoforte acquistato a rate nel 1969, «quando fui nominato direttore del Maggio fiorentino, non è uno Steinway, è un discreto quarto di coda, ma mi ha accompagna­to tutta la vita e non l’ho mai cambiato. Su questo pianoforte ho lavorato, e lui con me». Quel pianoforte «nei secoli fedele» riassume uno degli aspetti più forti della complessa personalit­à di Muti: il senso degli affetti e delle radici. E i premi? Bisogna tornare al piano di sotto. Accanto a ceramiche pugliesi e pugnali preziosi, omaggio del sultano dell’Oman, bisogna aprire un armadio che un antiquario aveva acquistato da una chiesa. Sull’anta appare la scritta Sanctorum Reliquiae, ed ecco le cittadinan­ze onorarie e le ventitré lauree ad honorem arrotolate per mancanza di spazio, una boccetta di whisky fatta in Giappone con la sua foto, la prima coppa vinta come direttore nel 1955 a Molfetta.

In casa Muti avverti la consapevol­ezza del proprio talento, un’idea di ineluttabi­le provvisori­età terrena, il dovere della memoria, un’ironia che tempera le pressioni, la solitudine del podio… E tanti altri echi e profumi. «Ognuno di questi oggetti è un momento della mia vita».

Questa è la mia prima e unica casa, io e Cristina ci abitiamo dal 1976, le è stato dato un sapore vagamente toscano

Il piano lo comprai a rate. È un discreto quarto di coda, abbiamo lavorato insieme sin dai miei esordi

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