L’ecofilosofia dei cosmetici solidi
Non hanno bisogno di flaconi di plastica. Dentro la fabbrica di Lush, schierata con l’ambiente
Che prima o poi ti compaia davanti una cascata di crema alla fragola, come nella «Fabbrica di cioccolato» di Willy Wonka, un po’ te lo aspetti. In realtà non c’è. Nella factory di Lush nella piccola città portuale di Poole, nel Dorset, l’atmosfera che si respira è però quella di un luogo fuori dal mondo, con colori ovunque e profumi che riempiono l’aria. Non si sente molto rumore di macchinari, ma la musica degli Oasis e dei Keane. Mancano anche gli oompa loompa del film, i piccoli ometti tutti uguali che mandano avanti la produzione. Ma ci sono persone, tante persone (quasi mille), di tutte le età, tutte diverse tra loro, per provenienza (solo il 42% è inglese), cultura, look. Perché creare un’azienda di persone è stata una delle tante condizioni etiche che i fondatori si sono posti quando 22 anni fa hanno dato vita alla loro avventura. Che all’inizio era solo un laboratorio annesso alla minuscola bottega al civico «29 e ½» di High Street, il primo di quello che sarebbe diventato un impero di 927 negozi nel mondo.
Lush è un’azienda sempre in prima linea nelle campagne etiche e sociali. L’ultima l’ha combattuta fino a pochi giorni fa: una mobilitazione per indurre i candidati alle elezioni britanniche a dire no alla caccia alla volpe, «sport» contro cui è schierato l’85% dei sudditi di Sua Maestà ma che ancora sopravvive per l’ostruzione della Camera dei Lord, la «camera dei ricchi» come la definisce Hilary Jones, ethical director di Lush, che ha trascormo so la sua vita tra azienda e barricate («non violente, sia chiaro»). Prima di questa ce n’erano state tante altre: contro i test sugli animali, contro le discriminazioni lgbt, contro la repressione dei migranti, contro il nucleare, contro la pena di morte, contro le pellicce, contro le corride. Molte aziende si impegnano a favore di qualcosa, Lush non si fa remore anche nel mettersi contro, quando serve. «Ci mettia- la faccia semplicemente perché è giusto farlo — spiega Hilary —. Chi ci sceglie prende il pacchetto completo, i nostri prodotti, noi e tutto quello che c’è dietro». Rispetto per le persone e per l’ambiente innanzitutto: «Tutto quello che produciamo è fatto a mano con ingredienti naturali — sottolinea la manager —. Abbiamo inventato prodotti innovativi, come le bombe da bagno o gli shampoo solidi non solo per un fatto di innovazione ma soprattutto per tutelare il pianeta». I cosmetici solidi non hanno bisogno di acqua e possono essere venduti senza flaconi di plastica. E anche i barattolini utilizzati per le creme non sono mai vergini, ma frutto di un processo di riciclaggio che inizia nei negozi: chi li riporta ha in omaggio maschere per il viso.
Ma l’etica la si incontra lungo tutta la filiera produttiva: «Cerchiamo i nostri fornitori in tutto il mondo, li aiutiamo a produrre con criteri sostenibili e favoriamo lo sviluppo di piccole comunità locali». Il commercio equo e solidale applicato ad una grande azienda, insomma. E il business non ne risente. Lo scorso anno il fatturato è stato di circa 830 milioni di euro, con un profitto pre-tax di circa 50 milioni. Che in parte viene reinvestito in altre iniziative etiche: nei giorni scorsi lo Spring Prize ha elargito 230 mila euro a una dozzina di progetti di rigenerazione ambientale e ogni anno in autunno il Lush Prize finanzia per 290 mila euro progetti di ricerca che non fanno uso di test sugli animali. «Siamo così e anche i nostri clienti — dice Hilary —. I nostri valori non sono negoziabili».
L’ultima battaglia Contro la caccia alla volpe, che sopravvive grazie al sostegno della «camera dei ricchi» Materie prime «Aiutiamo i fornitori a produrre con criteri sostenibili e favoriamo le piccole comunità»