«La vittoria sul sole»: suggestioni futuriste in un vortice di teatro e danza
Cantano, recitano, urlano, suonano e danzano in un vortice «ginnico» di azione teatral-musicale reso ancor più martellante da un’amplificazione ai limiti della distorsione. Del resto così prevedeva il progetto utopico di La vittoria sul sole, un’opera «cubofuturista russa» (così recita il sottotitolo) creata a tavolino nel 1913 dal pittore Kazimir Malevic, dallo scrittore Aleksei Krucënych e dal musicista Mickhail Matjusin. Si tratta di un folle esempio di teatro totale ricostruito, per quanto è possibile, dal Teatro Stas Namin di Mosca, che Ravenna Festival ha ospitato come spettacolo di punta, tra varie proposte felicemente estranee agli schemi consolidati, del proprio cartellone. L’interesse dell’operazione, va da sé, è più storico culturale che estetico, anche perché questi 80 minuti di frastuono e sudore, per quanto ottimamente eseguiti dalla compagnia, mettono a dura prova la capacità del pubblico di reggere l’impatto di un tale urto, reso ancor più «hard» da un impianto di amplificazione più adatto a un rave party che a un teatro. Ma il bello è che tra suggestioni futuristiche, simbolistiche e utopiche — la storia, se così si può chiamare, è incentrata sull’eroico tentativo di creare un mondo emancipato da ogni di dipendenza, persino dal sole — è la vecchia anima russa che emerge, quella che ama la violenza del bruitismo, ma la sa anche stemperare in forme di desolazione, quando non di sentimentalismo. L’allestimento sfrutta risorse scenotecniche impensabili nel 1913: i bozzetti di Malevic sono proiettati come video e/o ricostruiti in forma di macchine cubiste, mentre la partitura è revisionata da Aleksandr Slizunov in una forma per due pianoforti elettrici percossi da Aleksandra Popova e Anastasja Makuskina. Il pubblico dell’Alighieri accorda alla compagnia un successo molto cordiale.