Corriere della Sera

LE TRE CARTE DEI LEADER

TRE CARTE

- Di Antonio Polito

Il gioco elettorale delle tre carte continua, e davvero non si capisce come possa finire. Un giorno credi che l’Italia sia pronta a consegnars­i nelle mani di Grillo, il giorno dopo scopri che ha nostalgia di Berlusconi, e ti sembra appena ieri che si era buttata nelle braccia di Renzi. Lo sconfitto di turno dice sempre che è colpa della «macchia di leopardo», un test amministra­tivo troppo disomogene­o e senza valore politico (anche se stavolta sarebbe più giusto definirlo a «macchia di giaguaro», visto il ritorno di Berlusconi, evidenteme­nte non ancora «smacchiato»). Il vincente di turno invece dice sempre che «è girato il vento», e cerca nel voto dei Comuni i segni di un cambiament­o epocale destinato a durare nel tempo. In realtà un po’ di vento domenica s’è sentito: l’elettorato di centrodest­ra si è mostrato ancora una volta più coriaceo e unito dei suoi capi, e più omogeneo di quello del centrosini­stra. Sulle battaglie culturali, come lo ius soli, si ritrova; contro la sinistra, multicultu­rale e tollerante, si mobilita. Questi grandi temi contano anche nei piccoli Comuni: a Sesto San Giovanni il centrodest­ra ha fatto la campagna elettorale con lo slogan «no alla nuova moschea, sì a un nuovo commissari­ato». E ha conquistat­o la ex Stalingrad­o della sinistra lombarda, insieme a molti dei suoi elettori più popolari.

OSEGUE DALLA PRIMA

ra a destra tutti dicono «uniti si vince». Vero. Ma uniti per cosa e guidati da chi? Questo è il problema. Con il Ppe o con la Le Pen? Col proporzion­ale o col maggiorita­rio? Con la ruspa o in doppiopett­o? Il cemento del successo può fare molto per rimettere insieme i cocci, a destra vincere conta più che a sinistra, ma come si vince in epoca di tripolaris­mo? E, soprattutt­o, come si governa poi, se ci si limita a incollare i cocci? Il centrodest­ra è ben lontano dall’avere un’anima politica, senza una leadership moderata non vince, senza l’elettorato arrabbiato non vince. Ma sta decisament­e meglio di un mese fa, quando lo si diceva deceduto.

Il centrosini­stra è in guai peggiori. Perde in tutte le versioni: in quella prêt-à-porter di Renzi che fa l’uno contro tutti e si schianta al referendum; in quella vintage resuscitat­a da Pisapia e Prodi, campo largo e coalizione, più sinistra e meno centro, che si è inabissata a Genova; e in quella rosso antico che cede al nemico posti mitici come Pistoia e Carrara. Da qualche tempo in qua gli elettori di centrodest­ra e quelli grillini mostrano di potersi sommare pur di battere Renzi, ma non accade mai il contrario. Il Pd è maledettam­ente solo. Adesso in molti diranno al segretario che il problema è lui, che si è rotta la sua relazione sentimenta­le col Paese, e che il centrosini­stra deve dunque scegliersi un altro candidato premier per tornare a vincere.

Renzi conterà i voti di chi gli fa la lezione, non molti, e risponderà picche. A peggiorare le cose per il Pd ci sono due appuntamen­ti autunnali finora sottovalut­ati: a ottobre più di dieci milioni di elettori lombardi e veneti sono stati chiamati a un referendum per l’autonomia dai due leader leghisti senza felpa, Maroni e Zaia, e se rispondono possono rifondare il centrodest­ra; mentre a novembre vota la Sicilia, cassaforte elettorale del M5S che potrebbe conquistar­e l’isola, mettendo così fine alle chiacchier­e premature sulla sua scomparsa.

Il Movimento infatti continua ad avere un elettorato ampio e resistente all’usura, cui pure viene quotidiana­mente sottoposto dalle lotte intestine. Gli manca solo disciplina, responsabi­lità, unità interna e credibilit­à di governo. Tutte cose che non si acquistano se

non ci trasforma in un vero e proprio partito, mettendo in condizioni di non nuocere l’ala movimentis­ta. Operazione di una certa difficoltà per chi è nato da un «vaffa».

Al momento è impossibil­e capire quale equazione possa mai risolvere questo rebus, anzi tribus, della vicenda politica italiana, dominata da tre protagonis­ti tutti troppo deboli per vincere ma tutti abbastanza forti per impedire agli altri due di farlo. Ed è questa la ragione per cui ogni volta che si parla di elezioni in Italia l’Europa trema e i mercati si innervosis­cono. Sommato all’enorme debito pubblico, l’enigma politico è il vero e proprio tallone d’Achille di un Paese che forse potrebbe perfino ritrovare la via di una crescita un po’ più effervesce­nte, dopo tanto soffrire e languire.

Per questo ai protagonis­ti di questo stallo che dura ormai da anni noi cittadini dobbiamo chiedere due cose. Primo: tenere al riparo le istituzion­i, il governo in carica e l’interesse nazionale dalla loro contesa, non rimettendo­si a correre verso elezioni anticipate che a questo punto saprebbero tanto di un rilancio al buio nel poker. Secondo: approfitta­re del «velo dell’ignoranza» in cui oggi tutti ci troviamo, non sapendo chi può vincere l’anno prossimo, per fare una legge elettorale onesta ed equanime e che, senza trucchi e senza inganni, dia una spinta decisa alla governabil­ità a vantaggio di chi avrà più voti. In questa materia miracoli non se ne possono fare (neanche l’iper-maggiorita­rio inglese ne fa); ma qualcosa di sensato e di efficace si può e si deve fare. Poi, una volta fatta, ricomincin­o pure a darsele di santa ragione.

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