La famiglia, dove nasce il thriller
Fiona Barton torna a raccontare i segreti nascosti dentro casa, questa volta tra madre e figlia
Dopo il successo globale Come nel bestseller «La vedova», indaga la giornalista Kate Waters: lo scheletro di un neonato è stato ritrovato Immagine pubblica e verità «Ormai viviamo online, tutto diventa pubblico. E paradossalmente abbiamo molto di più da nascondere»
Forse non avete mai ucciso, ma di sicuro avete mentito. Almeno qualche volta. Piccole bugie innocenti o menzogne terribili, architettate da voi o da qualcuno che vi è vicino. Che ne siate vittime o artefici, non c’è scampo, i segreti di famiglia sono il muro portante — e nascosto — delle nostre esistenze. È questa la materia dei romanzi di Fiona Barton, ed è questo il motivo per cui il genere letterario del nostro tempo, quello che parla a tutti noi, è secondo lei il thriller psicologico, «alla Rebecca di Daphne du Maurier».
«Mi interessano le vite apparentemente banali costruite intorno a una bugia, e i lettori vogliono sapere quel che succede dietro le porte chiuse di una strada dove potrebbe abitare chiunque di noi», dice l’autrice del best seller mondiale La vedova e ora del nuovo romanzo Il bambino (Einaudi Stile libero).
Nel primo libro si trattava di indagare nei segreti che esistono tra una moglie e un marito. Qui il tema di fondo è il rapporto tra madri e figlie.
Il pretesto è il ritrovamento, in un cantiere, del minuscolo scheletro di un neonato. Lo stesso evento raccontato da tre narratrici principali, «una impostazione che mi viene dal giornalismo. Ero abituata a ricostruire un fatto cercando di parlare con tutti i protagonisti, volevo che la stessa storia mi fosse raccontata da punti di vista diversi», dice Barton, che dopo una carriera al «Telegraph» e al «Mail» l’anno scorso a 59 anni ha deciso di provare con la letteratura scrivendo La vedova. Ha venduto centinaia di migliaia di copie in 30 Paesi ed è arrivata presto al secondo romanzo.
Quale rapporto con il precedente? Tra i protagonisti c’è di nuovo la reporter Kate Waters. «Non l’ho pianificato, non volevo scrivere una saga e non lo è, ma il personaggio di Kate ha sgomitato fino a prendere il davanti della scena. Il bambino è comunque un libro indipendente, non c’è bisogno di avere letto prima La vedova. Ho mantenuto i narratori multipli perché mi permettono di cambiare prospettiva e di tenere il lettore in sospeso. E per uno scrittore, è più interessante stare nella testa di più persone». Come ci riesce? Usa diagrammi o scalette? «Mi piacerebbe essere più organizzata. Ho una lista di dati per ogni personaggio, quando è nato, quale educazione ha ricevuto... Ma più che altro trascrivo le voci che sento nella mia testa».
Potrebbe descrivere le tre protagoniste e narratrici principali? «Comincerò con Kate, che è al centro della storia. Kate Waters è una giornalista esperta, che si trova in mezzo alla rivoluzione dei media, l’avvento delle notizie online. Non dirò che è un aspetto totalmente autobiografico, ma è stato così veloce e importante questo cambiamento... Le chiedono di produrre news sulle celebrità, sui personaggi della tv. Allora cerca di trovare qualcosa che la tenga fuori della redazione, e si mette a indagare dopo avere letto un trafiletto sul cadavere di un bambino ritrovato per caso. Attraverso Kate vorrei mostrare che cosa significa essere una buona giornalista, e anche combattere gli stereotipi che girano oggi intorno alla stampa. Il luogo comune secondo il quale saremmo tutti criminali e bugiardi mi fa impazzire. Comunque, poi c’è Angela, alla quale molti anni prima hanno rubato il neonato appena partorito dalla culla, in ospedale. Pensa di continuo a quel bambino che non aveva neppure 24 ore, che non ha avuto modo di conoscere veramente, ma dal quale non riesce a separarsi. E poi c’è Emma, una donna molto vulnerabile, che soffre di ansia e depressione. Qualcosa è successo nella sua vita, c’è un segreto che la condiziona. E ha una relazione tormentata con la madre Jude, che quando era ragazzina la abbandonò».
Perché è così attratta dalla relazione tra madri e figlie? «È una cosa che conosco, sono una madre e sono anche una figlia, e volevo studiare questa relazione claustrofobica, che non è frutto di una scelta come nel matrimonio. Molte famiglie sono fondate sui segreti, che spesso vengono rispettati per generazioni. Potrebbe accadere a chiunque di noi».
Il segreto di Emma finisce per divorarla. «Lo ha tenuto per troppo tempo ormai, ma non può più liberarsene perché vorrebbe dire mettere in discussione tutta la sua vita. Chi le sta accanto pensa di conoscerla, ma ignora l’aspetto centrale della sua esistenza, quel che davvero la definisce come persona. C’è una differenza crescente tra quel che siamo e quel che sembriamo. Ormai viviamo anche online, tutto quel che pensiamo, sentiamo o diciamo diventa pubblico. E paradossalmente abbiamo molto di più da nascondere».
La differenza tra immagine pubblica e personalità vera si sta allargando? «Credo di sì, cerchiamo di mostrarci agli altri con una personalità che possa piacere. Ma abbiamo pensieri nascosti che gli altri non devono conoscere».
L’altro tema del libro è l’infanzia violata. Il bambino sottratto è un tema ricorrente in molti romanzi, per esempio in Bambini nel tempo di Ian McEwan, vent’anni fa. È questa l’ossessione contemporanea, l’incubo definitivo? «Fare del male a un bambino è il
peggiore crimine possibile, il più imperdonabile. Io lo uso per evocare emozioni, reazioni, segreti». In che modo il vivere in Francia ha influenzato la scrittura del libro? «Non molto, da ex giornalista posso scrivere ovunque, in aereo, in autobus o nel letto, che è il mio luogo di scrittura preferito, con molto tè e molti cuscini. Con mio marito cinque anni e mezzo fa ci siamo trasferiti in Dordogne, un posto nel verde pieno di inglesi, lo chiamano ormai Little England». Come ha affrontato il successo della Vedova? «È stata una sorpresa enorme, che ha cambiato tutto e niente. Non sono più giovane, la mia vita era comunque già tracciata. Lavo ancora i pavimenti, conduco una vita normale, mi piace così».