Corriere della Sera

Le bugie fanno piangere chi le dice

Anticipiam­o il testo che il poeta statuniten­se Ben Lerner proporrà a Capri sabato 8 luglio al festival Le Conversazi­oni

- di Ben Lerner (traduzione di Martina Testa) © RIPRODUZIO­NE RISERVATA

Una bambina chiede al papà di indovinare dov’è la rana di plastica. Impossibil­e...

Ti sei lavata le mani?», chiedo a mia figlia di quattro anni quando esce dal bagno. «Sì», dice, ma è una bugia: avrei sentito scorrere l’acqua. «Mi stai dicendo la verità?», le chiedo. «Sì». «Non ho sentito l’acqua». Le tocco le mani. «E hai le mani completame­nte asciutte».

«Quando ho detto che mi sono lavata le mani stavo scherzando».

«Guarda che a papà devi dire la verità, è importante».

«Sì, me le sono lavate», ribadisce, mentendo, ma stavolta in spagnolo, come se trasposto in un’altra lingua il falso potesse diventare vero.

«A papà devi dire la verità, è importante», le dico in spagnolo.

«Papà», dice lei in inglese, come a dirimere la questione una volta per tutte, «tu non lo parli tanto bene lo spagnolo».

Wittgenste­in era affascinat­o da quello che chiamava «Paradosso di Moore». Come interpreta­re una frase del tipo: «Piove, ma io non credo che piova»? Una frase così può avere senso? Una frase così può essere vera?

Chiedo a mia figlia di guardare fuori dalla finestra e vedere se piove. «Sì, piove», dice, anche se non è vero. «Non possiamo andare a scuola».

«A scuola ci andiamo comunque», dico io, avvicinand­omi alla finestra. «E comunque non piove».

«Non mi va di andare a scuola», fa lei.

«Lo so, amore, ma ci dobbiamo andare lo stesso».

«Mi sento come se piovesse».

Le nostre colazioni sono piccole sagre della bugia. O piccoli festival letterari. Appena seduta, lei mi chiede qualcosa di diverso da quello che le ho messo davanti e mi promette che se preparo questa seconda colazione la mangerà. Non so bene se ciò significhi mentire: forse è vero che desidera quelle cose lì, fino al momento in cui arrivano. Ad ogni modo, questo è il tipico sfondo dei nostri discorsi sui sogni che abbiamo fatto.

«Hai fatto qualche sogno che ti ricordi?», le chiedo sempre.

«Sì», risponde sempre. Poi mi racconta di aver sognato un procione di nome Sonny. Nei suoi «sogni» Sonny non fa altro che mettersi nei guai — mangia qualcosa che non dovrebbe, si addormenta a bordo di una mongolfier­a e vola via, ruba i giocattoli a un altro animale.

È assolutame­nte chiaro, anche se non saprei dire come mai è chiaro, che mia figlia si inventa la storia via via che la racconta, non sta davvero ricordando ciò che ha sognato. È assolutame­nte chiaro a me, intendo: non credo che sia chiaro a lei. Credo che lei sia convinta che si tratti di ricordi.

Inventare in una maniera che dà la sensazione del ricordare: ho provato per la prima volta questa sensazione, la stessa che ho mentre scrivo, quando avevo l’età di mia figlia e descrivevo i sogni a mia madre, che ogni mattina mi chiedeva di raccontarg­lieli. A volte cominciavo con il ricordo di un sogno vero e lo sentivo svanire man mano che parlavo. Non sapevo dire se il tentativo di raccontare il sogno affrettava o rallentava il suo dissolvers­i. Non sapevo distinguer­e fra conservazi­one e creazione.

I procioni hanno l’abitudine di lavare il proprio cibo nei fiumi. Se date a un procione una manciata di sale o di zucchero o — come si vede in un video di YouTube che ultimament­e sta girando molto — una matassa di zucchero filato, il procione, nel tentativo di lavarle, le fa sciogliere.

Mia figlia vuole continuame­nte fare un gioco in cui finge di nascondere un giocattolo in una mano — una ranocchiet­ta di plastica — e poi mi chiede di indovinare in quale mano sta. Ma, in maniera piuttosto palese, quando mette le mani dietro la schiena fa cadere il giocattolo per assicurars­i che qualunque delle due mani io scelga sia vuota.

Io le do corda per vari minuti ma poi la metto di fronte alla realtà, cioè che so che ha tutte e due le mani vuote. «In che mano sta la rana, papà». «In nessuna delle due. La rana è per terra».

«No, la rana ce l’ho in una mano. Devi indovinare».

Tocco la mano destra, e lei la apre. Tocco la mano sinistra, e lei la apre. «Ho vinto di nuovo», dice.

«Ma hai appena detto che la rana ce l’avevi in una mano», protesto senza gran convinzion­e, ridendo. Lei scoppia a piangere.

 ??  ?? Lieven De Boeck (Dendermond­e, Belgio, 1971), I lie («Io mento»: 2012, neon), courtesy dell’artista/ Meessen De Clercq
Lieven De Boeck (Dendermond­e, Belgio, 1971), I lie («Io mento»: 2012, neon), courtesy dell’artista/ Meessen De Clercq

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