«Occhio al cibo social e al rischio banalità»
IL DIBATTITO Abbiamo deciso di aprire un dibattito sul foodwriting. Perché ci siamo resi conto che in Italia è considerato ancora giornalismo di serie B. Serve allora una riflessione su chi vogliamo essere, per capire in che direzione crescere. Consapevo
Il cibo non è solo piacere. Le persone finalmente l’hanno capito: è collegato alla politica, all’ambiente, ai valori culturali, alla storia, all’arte. A tantissime parti importanti della nostra vita. E anche i foodwriter sono cambiati nel tempo: se una volta erano più che altro donne, e più che altro impegnate a spiegare piatti e tecniche di cucina, ora il numero di uomini che si occupano di food, in tanti modi diversi, è cresciuto. Questo è un cambiamento che accolgo veramente molto volentieri perché se c’è del lavoro da fare, in questo settore, è proprio nella diversità e nella pluralità degli autori. Con ciò non voglio dire che scrivere di ricette non sia importante: anzi, risponde all’eterna domanda «che cosa cucino?», che per i lettori è fondamentale. Ma il foodwriting, appunto, non è solo questo e ben vanga che tutti, uomini e donne, si occupino di tutto.
Uno degli autori che ha segnato la strada verso una scrittura di cibo che definirei più fresca è lo chef Anthony Bourdain con il suo famoso Kitchen Confidential e altri lavori: è riuscito a ricordare ai lettori che scrivere, che sia di cibo o di automobili, è tutta una questione di tono, tecniche narrative, prospettiva. Ma nel panorama generale, in termini di stile e di ritmo, ci sono ancora molti margini di miglioramento. Al momento, infatti, la maggior parte del foodwriting che leggo è ripetitivo e, francamente, noioso. La lezione è lunga e difficile da imparare.
Se dovessi elencare le mie personali regole del foodwriting, comincerei con questa: siate prima di tutto dei mangiatori curiosi e ambiziosi. Esplorate, appena ne avete l’occasione, nuovi posti e assaggiate nuovi piatti. La stessa cosa si potrebbe dire della vostra cucina: cimentatevi con ricette nuove. Poi: preoccupatevi di raccontare una buona storia, non focalizzatevi solamente sul cibo. E queste storie cercatele al di fuori del piccolo mondo del food. Se state scrivendo ricette, prendete il lettore per mano e siate minuziosi. Siate anche convinti di quello che fate, e sostenetelo. Infine, punti bonus per chi ha un buon senso dell’umorismo!
Tutte queste regole sono ancora più importanti se pensiamo che oggi, con i social network, l’informazione è sì più disponibile, le tendenze diventano sì più popolari e più in fretta, le informazioni circolano sì molto di più, diffondendo (anche) più consapevolezza tra il pubblico. Ma l’effetto di questa condivisone immediata è anche un altro: le buone storie durano come il pesce fresco, cioè diventano subito vecchie. Non solo: i social hanno fatto dilagare il fenomeno del copia-incolla. Non appena un articolo funziona, lo riprendono tutti: il che è comprensibile, in termini di click, ma è anche pigro. A lungo andare questo circolo sta portando il foodwriting a essere un’eco di sé stesso.
Ecco perché è importante sforzarsi di cercare argomenti non battuti. Per prendere esempio da qualcuno, faccio dei nomi di foodwriter che leggo appena posso perché li trovo sempre originali, densi e interessanti: Michael Pollan, tanto per cominciare, poi la nostra autrice Kristen Miglore, Adam Sachs, caporedattore di Saveur, e la chef e scrittrice Gabrielle Hamilton.
Infine, di che cosa un foodwriter dovrebbe scrivere oggi? Dal mio punto di vista l’argomento più interessante su cui indagare in questo momento è la distribuzione del cibo: i negozi di alimentari come li conosciamo stanno scomparendo, la grande distribuzione si sta evolvendo, e continuerà a farlo in modo imprevedibile nei prossimi anni. Di materiale da far emergere, insomma, ce n’è.
(testo raccolto da Alessandra Dal Monte)