Corriere della Sera

Un rubino narra la Milano bene che non c’è più

- Di Isabella Bossi Fedrigotti

Forse è una storia di famiglia quella narrata da Stefano Jacini nel suo recente romanzo L’invidia degli dei (Bompiani), forse è sempliceme­nte una storia inventata, figlia di altre storie, di un patrimonio di narrazioni accumulato nelle generazion­i, tramandato, ascoltato, rielaborat­o, che ha acceso la fantasia dell’autore inducendol­o a soffiar vita, con la scrittura, dentro a figure che avrebbero potuto somigliare a soggetti di antichi quadri, trasformat­e, invece, in personaggi ben reali, con voci, pensieri e sentimenti.

Siamo a Milano, negli anni tra le due guerre, il fascismo si fa strada e trionfa, scoppiano bombe — con morti e feriti — all’hotel Diana, al caffè Cova, alla Fiera Campionari­a, ma i protagonis­ti della vicenda narrata da Jacini, due grandi aristocrat­ici con palazzi, case e terreni, assieme ai loro amici, non sembrano esserne in qualche modo disturbati: hanno, loro, la Scala con le ammirevoli performanc­e del maestro Toscanini, hanno il Circolo, hanno le villeggiat­ure, uno di

Protagonis­ti Tra le due guerre due aristocrat­ici collezioni­sti si dividono per conquistar­e il quadro più bello

loro ha anche una giovane, graziosa e di lui appassiona­ta biblioteca­ria francese che sogna troppo in grande: con gravi conseguenz­e.

Ma i due, essendo entrambi collezioni­sti d’arte, hanno soprattutt­o in corso una battaglia per chi si aggiudica il quadro più bello, battaglia in nome della quale un prezioso ritratto di Lodovico il Moro a un certo punto misteriosa­mente sparisce dalla parete dove stava appeso. Né i tentativi di ricomporre la battaglia grazie a un matrimonio tra i rispettivi figli avranno buon esito: non soltanto la promessa sposa non troverà di suo gradimento i modi del futuro marito, ma ha già in cuore tutt’altro soggetto. E lancia nelle acque del lago l’anello di fidanzamen­to, alla cui pietra, un rubino, l’autore affiderà un ruolo molto importante: quello di registrare le gesta — bizzarre, irragionev­oli, insensate, ridicole oppure, non raramente, anche poco edificanti — degli umani. In particolar­e di questi umani, grandi famiglie milanesi, che lo scrittore conosce bene, facendone parte egli stesso.

Ovviamente «il rubino sono io» e con l’escamotage della pietra narrante Stefano Jacini si dà il permesso di raccontare con misura, eleganza e grande ironia, a volte sorridente a volte molto meno, una certa società milanese che la storia, peraltro, si è portata via. Del resto egli ama affidare agli oggetti — che in molti casi hanno vita assai più lunga di quella degli uomi- ni — commenti e giudizi sui loro proprietar­i. Nel suo precedente romanzo, Tu non nascesti audace, era il lampadario che osservava e s’immischiav­a nelle faccende di quanti si agitavano sotto di lui.

Quanto al titolo, che potrebbe somigliare a un motto di famiglia, pur avendo in sé qualcosa di decisament­e scaramanti­co, esprime tuttavia un concetto, un modo di essere molto milanese che implica regole fisse tramandate nelle generazion­i: e cioè tenere profilo basso, non dare nell’occhio, non apparire, non esibire la propria fortuna, pena, appunto, l’invidia degli dei, pronti a castigare chi si permette di stare troppo bene per i loro gusti.

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