Un rubino narra la Milano bene che non c’è più
Forse è una storia di famiglia quella narrata da Stefano Jacini nel suo recente romanzo L’invidia degli dei (Bompiani), forse è semplicemente una storia inventata, figlia di altre storie, di un patrimonio di narrazioni accumulato nelle generazioni, tramandato, ascoltato, rielaborato, che ha acceso la fantasia dell’autore inducendolo a soffiar vita, con la scrittura, dentro a figure che avrebbero potuto somigliare a soggetti di antichi quadri, trasformate, invece, in personaggi ben reali, con voci, pensieri e sentimenti.
Siamo a Milano, negli anni tra le due guerre, il fascismo si fa strada e trionfa, scoppiano bombe — con morti e feriti — all’hotel Diana, al caffè Cova, alla Fiera Campionaria, ma i protagonisti della vicenda narrata da Jacini, due grandi aristocratici con palazzi, case e terreni, assieme ai loro amici, non sembrano esserne in qualche modo disturbati: hanno, loro, la Scala con le ammirevoli performance del maestro Toscanini, hanno il Circolo, hanno le villeggiature, uno di
Protagonisti Tra le due guerre due aristocratici collezionisti si dividono per conquistare il quadro più bello
loro ha anche una giovane, graziosa e di lui appassionata bibliotecaria francese che sogna troppo in grande: con gravi conseguenze.
Ma i due, essendo entrambi collezionisti d’arte, hanno soprattutto in corso una battaglia per chi si aggiudica il quadro più bello, battaglia in nome della quale un prezioso ritratto di Lodovico il Moro a un certo punto misteriosamente sparisce dalla parete dove stava appeso. Né i tentativi di ricomporre la battaglia grazie a un matrimonio tra i rispettivi figli avranno buon esito: non soltanto la promessa sposa non troverà di suo gradimento i modi del futuro marito, ma ha già in cuore tutt’altro soggetto. E lancia nelle acque del lago l’anello di fidanzamento, alla cui pietra, un rubino, l’autore affiderà un ruolo molto importante: quello di registrare le gesta — bizzarre, irragionevoli, insensate, ridicole oppure, non raramente, anche poco edificanti — degli umani. In particolare di questi umani, grandi famiglie milanesi, che lo scrittore conosce bene, facendone parte egli stesso.
Ovviamente «il rubino sono io» e con l’escamotage della pietra narrante Stefano Jacini si dà il permesso di raccontare con misura, eleganza e grande ironia, a volte sorridente a volte molto meno, una certa società milanese che la storia, peraltro, si è portata via. Del resto egli ama affidare agli oggetti — che in molti casi hanno vita assai più lunga di quella degli uomi- ni — commenti e giudizi sui loro proprietari. Nel suo precedente romanzo, Tu non nascesti audace, era il lampadario che osservava e s’immischiava nelle faccende di quanti si agitavano sotto di lui.
Quanto al titolo, che potrebbe somigliare a un motto di famiglia, pur avendo in sé qualcosa di decisamente scaramantico, esprime tuttavia un concetto, un modo di essere molto milanese che implica regole fisse tramandate nelle generazioni: e cioè tenere profilo basso, non dare nell’occhio, non apparire, non esibire la propria fortuna, pena, appunto, l’invidia degli dei, pronti a castigare chi si permette di stare troppo bene per i loro gusti.