LA QUOTA DELL’INNOCENZA
DA ROUSSEAU A SEGANTINI: I PASCOLI ALPINI COME FARMACO PER IL DEGRADO DELLE CITTÀ
Trentacinquemila ettari di pascolo, 320 malghe attive, poco meno di 11 mila vacche da latte in quota, 20 mila pecore e tremila capre. Bastano i numeri a dare un’idea dell’importanza dell’alpeggio nella cultura del Trentino. E, se per la popolazione delle valli e degli altipiani i pascoli di montagna intrecciano un saldo legame con la tradizione, ai turisti offrono una stagione di escursioni e passeggiate, che durerà fino alle desmontegade o smalgade di settembre, quando gli animali rientreranno a valle. Chi si aggirerà lassù, all’ombra delle crode dolomitiche, rinnoverà l’incontro con un rito atavico, che si ripete da migliaia di anni. La cultura europea se lo trovò davanti per la prima volta a partire dal ‘700, quando la montagna entrò a far parte dell’immaginario della Modernità. I gentiluomini che si inerpicavano sulle Alpi, con l’Arcadia, si portavano dietro un elegante modello di virtù e innocenza, che inaspettatamente si sarebbe ripresentato, ma con ben altra ispida concretezza, nell’antichissima civiltà pastorale, che si ripeteva identica ad ogni stagione di fronte agli scenari grandiosi dischiusi dall’estetica del sublime. In fondo tra La nouvelle Heloïse di Rousseau e Heidi, il romanzo della svizzera Johanna Spyri uscito un secolo più tardi, corre un filo saldo costituito dall’idea della montagna come pharmakon. Da una parte stavano le città, luoghi di corruttela e di degrado, dall’altra splendevano i pascoli delle Alpi, in quanto sedi di una autenticità primigenia, miracolosamente serbatasi nel cuore dell’Europa. La storia della bimba svizzera, la più popolare testimone della Confederazione nel mondo, è la storia di un paradise lost and regained. «Aveva rivisto ancora una volta i suoi monti e le sue cime — racconta la Spyri — nello splendore della sera, aveva sentito ancora una volta il mormorare degli abeti. Era di nuovo sull’Alpe».
Giovanni Segantini, che muore di polmonite sui pascoli dello Schafberg, dove aveva dipinto e ridipinto il mondo degli alpeggi, è uno dei profeti e dei martiri di questa religione. Il pittore trentino era nato ad Arco e, affascinato dalla nitidezza della luce dell’alta quota, era salito sui pascoli con colori e cavalletto, seguendo il call of the wild delle cime. Quale fosse il suo sogno primitivistico, che continuava a essere una ricerca di essenzialità e di autenticità, ce lo dicono le tele de «Le due madri». Nella prima, del 1889, dentro una stalla, nel chiarore intimo di una lanterna, un vitellino riposa appoggiato a una mucca, mentre una madre tiene fra le braccia un neonato addormentato. Nella seconda, di dieci anni più tardi, nello scenario di un alpeggio a oltre duemila metri una donna con un bambino in braccio si incammina in un’ora di luce radente, seguita da una pecora con il suo agnellino. In entrambi i quadri, sfrondato di ogni sovrapposizione, brilla il senso struggente della vita, che solo può emergere dalla vicinanza tra uomini e animali. Il sogno di innocenza, della pastorale alpina settecentesca, ha ceduto il passo a una dolente rappresentazione naturalistica e insieme simbolica, dell’alpeggio. Gli ultimi che vivono lassù, additano una strada ai molti che, quaggiù, hanno smarrito il proprio cammino.
Oggi il mondo dei pascoli è al centro di altre mitologie. Per alcuni giovani, che scelgono di mollare tutto per andare a lavorare nelle malghe, è la meta di un downshifting, che spezza le catene di una quotidianità impazzita. Per la maggior parte delle persone, la malga e l’alpeggio sono al centro di un reticolo di significati, che spaziano dall’ambiente puro alla genuinità, dal tipico al prodotto chilometri zero, dalla gastronomia all’antropologia, fino al benessere animale.
E per i valligiani? Un tempo le croci che sorgevano in ogni alpeggio non erano solo simboli religiosi. Erano anche un segnale della civiltà, con il quale l’uomo aveva voluto consacrare e, direi, prendere possesso di quell’avamposto sperduto fra l’orrido dei monti. Quella croce definiva uno schema spaziale, segnava una discontinuità, umanizzava un frammento di terra nel cuore selvaggio della montagna. Oggi a molte malghe si arriva con il quad o il fuoristrada e la lontananza è andata perduta. Ma a chi abbia voglia, consiglio di fermarsi fino al tramonto, quando sono andati via tutti e si sente solo l’inquieto agitarsi delle bestie nelle stalle. Nell’ultimo bagliore del giorno, le montagne tornano a incombere immense e inquietanti e, per un istante, la speranza dell’uomo sembra ancora consegnata ai due rami di cembro incrociati.
La storia di Heidi, il romanzo della svizzera Johanna Spyri, è quella di un paradiso perduto e riacquistato
Oggi questo mondo è al centro di altre mitologie: la fuga da una quotidianità impazzita, la genuinità del chilometro zero