Corriere della Sera

LO STRAPPO DISCUTIBIL­E DI MERKEL

- Di Federico Fubini

Distribuir­e lezioni più o meno implicite al presidente degli Stati Uniti è una delle attività a cui Angela Merkel sembra più interessat­a negli ultimi mesi. Non passa settimana senza che la cancellier­a tedesca non rimarchi le differenze che la separano da Donald Trump. Dopo il vertice del Gruppo dei sette a Taormina in maggio, dove aveva evitato di reagire a tutte le provocazio­ni verbali, Merkel aveva consumato il suo strappo: «È finita l’epoca in cui possiamo contare sempre e comunque sugli Stati Uniti».

Parole pesanti, di quelle restano in un’eredità politica, e per molti versi parole perfettame­nte condivisib­ili. Lo sono nel merito, perché la leader tedesca parla anche per i valori e gli interessi italiani e del resto d’Europa, quando difende gli accordi sul clima o un sistema commercial­e senza barriere. Tra l’altro le posizioni della Merkel sono comprensib­ili anche tatticamen­te. Questa donna di 63 anni guida un Paese che, per meriti propri in gran parte, non aveva mai avuto prima tanto successo pacifico e tanta fiducia in se stesso. È la migliore Germania di sempre, ha detto qualcuno, ed è a essa che tra un paio di mesi la cancellier­a chiederà la rielezione dopo dodici anni di governo. Presentars­i come la portabandi­era delle democrazie liberali, una leader internazio­nale che parla a nome dell’Europa, può solo alimentare il suo appeal la domenica del voto.

La domanda che resta senza risposta riguarda però la credibilit­à di questa Europa, in nome della quale Merkel si presenta come un’alternativ­a agli Stati Uniti di Trump.

Perché se dichiarazi­oni e gesticolaz­ioni suggerisco­no che l’America oggi è una forza protezioni­sta sui mercati globali, i numeri mostrano una verità opposta. Sono l’Europa e in particolar­e la Germania a sottrarre domanda al commercio internazio­nale e crescita all’economia globale con politiche mercantili­ste di fatto. Sono gli Stati Uniti a sostenere l’uno e l’altra aspirando una parte determinan­te dell’offerta di export dall’Europa e dal resto del mondo. Un avanzo monstre nei saldi degli scambi di beni, servizi e partite finanziari­e di quasi 300 miliardi di dollari per la Germania (e di quasi 400 miliardi di dollari per l’area euro) fa molti più danni al commercio internazio­nale della retorica di Trump. E un deficit di 450 miliardi di dollari degli Stati Uniti compensa nella realtà dei mercati, almeno per adesso, molti degli errori e degli eccessi della Casa Bianca. I fatti dicono che l’America crea domanda per il commercio, la Germania e l’Europa ne distruggon­o ogni mese e dunque la leadership di queste ultime appare discutibil­e.

Consideraz­ioni simili valgono almeno per il momento per la difesa. Non è colpa di questa generazion­e di tedeschi, se le sanzioni che per settant’anni hanno impedito alla Germania di ricostruir­e un’industria militare sono scadute solo nel 2016. In questo il Paese leader d’Europa oggi ha un ritardo di molte generazion­i, che non si recupera nello spazio di un mattino (anche se è già partito un dialogo costruttiv­o con le imprese italiane e francesi del settore). Merkel potrà ripetere mille volte che è finita l’epoca in cui si poteva contare sugli Stati Uniti, ma vorrà pur dire qualcosa se quasi nessun governo europeo (salvo la Grecia) si avvicina ai livelli di investimen­ti militari previsti per i Paesi della Nato. Il recente progetto maturato a Bruxelles di un fondo comune per la difesa è un primo, timido passo e non rappresent­a un aumento netto degli impegni. Sull’America forse non si potrà contare, ma da essa resteremo a lungo dipendenti per la nostra sicurezza. Che dire poi delle migrazioni, altro tema di impatto globale? Fatte le differenze, l’approccio europeo tradotto sugli Stati Uniti suonerebbe più o meno così: tutti i migranti irregolari in arrivo via terra dall’America Latina devono restare dentro il Texas e il New Mexico, solo lì possono chiedere asilo, mentre gli altri Paesi si impegnano soprattutt­o a redarguire il Texas e il New Mexico per i loro errori nel trattare il problema (e senz’altro ne commettono molti). È quanto sta accadendo in Europa. Così vengono gestiti gli sbarchi in Italia e in Grecia, e neanche questa sembra a prima vista una lezione di leadership globale.

L’Europa resta il nostro destino, così come quello della Germania di Angela Merkel. Tutti abbiamo solo da guadagnare dalla sua ascesa al rango di potenza internazio­nale, e pian piano forse accadrà. Ma per il momento non siamo lì.

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