Da Calenda a Sala fino a Delrio Chi si allontana dal segretario
Prima l’asse, poi la freddezza. Rapporti più difficili con politici e manager
Dario Franceschini è l’ultimo in ordine di tempo. Non è mai stato un renziano doc, ma il sistema di potere dell’ex premier lo aveva sposato e sostenuto, lui e la sua cosiddetta Area dem. Ora fa un punto di orgoglio della nuova strategia politica, «Renzi deve cambiare rotta», mentre il diretto interessato lo tratta con sufficienza: «Parla per frasi fatte», ha chiosato, all’ultima direzione del partito.
I sindaci
C’era una volta una corsa a prendere la «patente», per dirla con Pirandello, del blocco di potere renziano. Oggi la corsa è anche in senso contrario: chi aveva la patente talvolta la nasconde nel cassetto, o la misconosce. Anche Renzi ci ha messo del suo: c’è chi lo molla, e chi invece è stato mollato dal segretario del Pd. Di sicuro ha acquistato libertà, nella critica, il sindaco di Milano, Beppe Sala, per il quale ora l’ex premier «è un po’ indisponente, ha lasciato soli gli amministratori sul territorio». E dire che una volta, l’ex manager, della sintonia umana e politica con Renzi faceva un vanto. Ricambiato. Un altro sindaco, Giorgio Gori, stratega della campagna della prima rottamazione, ha una linea politica agli antipodi: governa Bergamo includendo la sinistra.
«Troppo tecnico»
Fra i grandi amori renziani, passioni politiche e professionali finite all’improvviso, c’è anche Carlo Calenda. Dicono che abbiano recuperato di recente un rapporto personale, non politico, ma un tempo era per l’ex premier una delle menti migliori del Paese, fatto ambasciatore praticamente per decreto, inviato a Bruxelles a dispetto dell’intera Farnesina. Era una stima reciproca, costruita nelle missioni all’estero con gli imprenditori italiani, finita un mese dopo che Calenda giurò da ministro: «Troppo tecnico», e forse troppo autonomo, fu il ripensamento.
Chi ha vissuto il meccanismo indica nel carattere dell’ex premier e nel suo affidarsi all’intermediazione del cosiddetto Giglio magico (Boschi, Lotti, Carrai) i peccati originari. Difetti che si affiancherebbero all’incapacità di costruire i processi, il back office istituzionale, per abbinarli alle decisioni strategiche. Di sicuro Renzi ci ha messo del suo, anche nel mollare: basti pensare alla Rai, a Campo Dall’Orto, per il quale fu allestita una legge apposita per dargli più poteri e poi lasciato in balia degli scontri, fatali, interni all’azienda. E che dire di Fabio Fazio, considerato dal Giglio magico un cantore del renzismo, «il pupillo» del premier, dicevano a Palazzo Chigi, e oggi bersagliato dalle polemiche dem sullo stipendio milionario.
Le scelte nelle aziende
Come per Rossella Orlandi, all’Agenzia delle Entrate, bravissima sino a quando non è stata sostituita. E anche con Pier Carlo Padoan il rapporto si è via via ridotto fino ai minimi termini. Nei processi di formazione del consenso si trovano forse spiegazioni: a Caio è stato imputato di non aver mosso Poste Italiane nella difesa di alcuni asset strategici; a Campo Dall’Orto, dopo la sconfitta sul referendum, l’incapacità di spiegare agli italiani i contenuti delle riforme costituzionali, poi fallite. Nel caso dell’editore e imprenditore Carlo De Benedetti le ragioni di una rottura sono forse molteplici, ma è indubbio che ha seguito con favore l’ascesa di Renzi, mentre oggi, ed è una metafora, il favore è scolorito.
Sindrome di Stoccolma