Corriere della Sera

IL DILEMMA DI MATTEO RENZI SULLA CANDIDATUR­A A PREMIER

Novità Con il sistema proporzion­ale il segretario del partito di maggioranz­a non diventa necessaria­mente presidente del Consiglio. Servono tattica e pazienza

- di Michele Salvati

Metamorfos­i Il Pd è l’ultimo vero partito rimasto in Italia, ma è in via di trasformaz­ione

Contrasti A livello nazionale si è imposta la sinistra liberale ma a livello locale ci sono resistenze

Èstato pubblicato da poco un bel libro, soprattutt­o un libro utile, per chi si interessa delle vicende dei partiti e dei movimenti politici del nostro Paese: L’ultimo partito, di Luciano Fasano e Paolo Natale, editore Giappichel­li. L’ultimo partito è il Partito democratic­o, il solo grande partito sopravviss­uto attraverso continue trasformaz­ioni e ridenomina­zioni alla doppia crisi che i partiti italiani hanno conosciuto nell’ultimo quarto di secolo: quella dei primi anni 90, a seguito di Tangentopo­li, e quella più recente, che ha condotto alla straordina­ria affermazio­ne del Movimento 5 Stelle. E’ il partito che ha raccolto l’eredità politica del Partito comunista e della sinistra democristi­ana e ha mantenuto forme organizzat­ive e modelli di democrazia interna che assomiglia­no a quelli dei partiti di una volta. Sconvolgim­enti di questa intensità e durata — il primo soprattutt­o — non ci sono stati negli altri grandi Paesi dell’Europa occidental­e e solo di recente il loro sistema politico e i loro modelli di democrazia stanno risentendo dell’ondata populista e antieurope­a conseguent­e alle difficoltà economiche e all’intensità dell’immigrazio­ne.

Nato nel 2007 dalle radici dell’Ulivo, nei suoi dieci anni di vita il Pd ha già conosciuto tre significat­ivi mutamenti di indirizzo politico, coincident­i con le tre leadership che si sono succedute: lasciando da parte le reggenze precongres­suali di Franceschi­ni (dopo Veltroni) e Epifani (dopo Bersani), abbiamo avuto «il partito amalgama» di Veltroni (2007-09), il «partito vecchio stile» di Bersani (2009-13) e «il partito pragmatico» di Renzi (2013-17), come li definiscon­o Fasano e Natale. E faticosame­nte ci si sta avviando verso un quarto mutamento, sempre con Renzi al comando. Le cause e conseguenz­e di questi mutamenti sono descritte con grande dettaglio dai due autori e le lascio all’interesse e all’attenzione di chi leggerà il libro. Qui vorrei accennare all’ultimo mutamento, e in particolar­e al passaggio tra Renzi 1 e Renzi 2.

Trattandos­i di un libro di

politologi seri, basato su accurate ricostruzi­oni fattuali, quest’ultimo passaggio — relativo a eventi futuri e imprevedib­ili — è solo descritto per quanto è già avvenuto, per i risultati del congresso che si è appena svolto, quello che ha portato appunto al Renzi 2. Non essendo un politologo ma solo un appassiona­to di politica (sì, ci si può ancora appassiona­re di politica!), poche consideraz­ioni le ho avanzate nella prefazione al libro che gli autori mi hanno chiesto, e le riassumo telegrafic­amente. La prima è che l’indirizzo politico che Renzi 1 ha tentato di imprimere al partito è un indirizzo di sinistra li- berale, aperto e competitiv­o verso il centro dello schieramen­to politico, in questo non dissimile da quello di Veltroni. La seconda consideraz­ione è che, per imporre questo indirizzo, come presidente del Consiglio Renzi 1 ha cercato di attuare condizioni istituzion­ali di democrazia decidente, mediante una legge elettorale fortemente maggiorita­ria (tramite il ballottagg­io, essa comunque avrebbe ricondotto il sistema ad un confronto bipolare) e mediante una riforma costituzio­nale che escludeva il Senato dalla fiducia al governo. La terza consideraz­ione è che questo secondo obiettivo è fallito, e ci ritroviamo oggi in un sistema elettorale

proporzion­ale. È fallito perché Renzi 1 si è trovato solo, osteggiato nel suo stesso partito e isolato al di fuori: se con diverse scelte tattiche e con diversi atteggiame­nti personali sarebbe riuscito a raggiunger­e entrambi i suoi obiettivi è problema al quale dedico qualche accenno nella prefazione al libro. La quarta consideraz­ione è più positiva: Renzi 1 (confermato da Renzi 2) è comunque riuscito, a livello nazionale, a portare un partito in cui un indirizzo di sinistra liberale era del tutto minoritari­o ad una situazione in cui è di gran lunga prevalente.

Prevalente nei numeri della direzione e della segreteria nazionali, ma non radicato nella cultura del partito, non compreso nelle sue implicazio­ni e, soprattutt­o, non accettato a livello locale: qui spesso prevalgono — e prevalevan­o da lungo tempo, assai prima dell’ascesa di Renzi alla segreteria — orientamen­ti eterogenei e spesso assai difformi da quelli nazionali. Come segretario del Pd, Renzi 2 ha di fronte un compito di grande difficoltà cui dedicare le proprie energie, se vuole perseguire nel lungo periodo i due grandi obiettivi (sinistra liberale e democrazia decidente) che ha cercato di attuare dall’alto, come presidente del Consiglio. Occorre pazienza, dote che il segretario non ha sinora mostrato, insieme all’abilità politica e all’opportunis­mo di cui è ampiamente provvisto. Occorre comprensio­ne delle logiche di un sistema proporzion­ale: in questo il segretario di partito, anche del partito di maggioranz­a relativa, non è necessaria­mente il candidato alla presidenza del Consiglio, come lo è invece in un sistema maggiorita­rio.

Se però Renzi non si candidasse per il Pd come presidente del Consiglio nelle prossime elezioni politiche — a cominciare da Gentiloni ci sono altri che potrebbero svolgere bene questo compito — ciò verrebbe inteso come rinuncia a perseguire gli obiettivi sui quali ha vinto il congresso e come una vittoria di coloro — e sono molti, nel partito e fuori — che tali obiettivi avversano e consideran­o l’attuale segretario del Pd estraneo alla storia della sinistra. Questo sarà probabilme­nte un argomento decisivo nelle future scelte di Renzi 2.

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