Corriere della Sera

Nicola C.

- Facampora@hotmail.com Alessandro Pesce

A proposito della lettera «A mia zia non serve l’assegno di accompagna­mento», ci sono tanti anziani in condizioni critiche ai quali — per ragioni legate anche al lungo iter della pratica — il contributo non viene riconosciu­to. E spesso la risposta arriva anche molto dopo che l’anziano è deceduto. Nostra mamma (92 anni, una pensione di 800 euro) ha problemi al cuore ed è impossibil­itata a deambulare da sola. La visita fiscale è stata fatta il 31 maggio, ma a tutt’oggi non sappiamo nulla. Il nostro medico ci ha già anticipato di non aspettarci molto. Dobbiamo però essere grate alla Asl: abbiamo ottenuto 162 pannolini per 3 mesi per una persona cambiata 3-4 volte al giorno. Margherita, Vincenzina Russo

Abbiamo atteso la totale dipendenza, ma la richiesta per la mamma è stata respinta. La Commission­e Inps ha esaminato i documenti sommariame­nte e non ha effettuato un esame clinico di verifica delle sue condizioni generali.

Maria Roberta M.

Purtroppo, per esperienza personale, la Commission­e addetta alla concession­e dell’invalidità esegue un esame accurato del richiedent­e e della documentaz­ione.

Franco C.

Anche a me non serve l’assegno assegnatom­i d’ufficio. Sono molto coscienzio­sa e quindi lo uso per gli altri, ma quanti lo fanno?

ROMANESCO

Elena F.

Termine comunque da evitare Caro Aldo, in merito alla lettera di Vanni d’Erman a proposito del romanocent­rismo, vorrei specificar­e che nel programma 610 non dicono «’sti c...i» ma è il capo indiano Estiqaatsi che, richiesto di opinioni su temi svariati risponde «Estiqaatsi….pensa che etc.».

Francesco Acampora

Caro Francesco, non mi pare che faccia molta differenza... Le lettere firmate con nome, cognome e città e le foto vanno inviate a «Lo dico al Corriere» Corriere della Sera via Solferino, 28 20121 Milano Fax: 02-62827579

«Per gli assegni di accompagna­mento iter lungo e complicato»

lettere@corriere.it lettereald­ocazzullo @corriere.it

Aldo Cazzullo - «Lo dico al Corriere» «Lo dico al Corriere» @corriere

Caro Aldo,

ho letto che in Svezia e in Norvegia ci saranno orari in cui accederann­o soltanto le donne in piscina. Questo provvedime­nto è per favorire l’integrazio­ne con i musulmani. Trovo comprensib­ile e doverosame­nte rispettabi­le che ci siano delle persone che intendano vivere secondo le leggi e le tradizioni del proprio Paese d’origine e della propria religione. È però altrettant­o vero che le democrazie europee hanno il diritto e il dovere di tutelare le proprie Costituzio­ni. E i propri valori: per esempio la laicità dello Stato e la parità uomo-donna. Quale modello di integrazio­ne auspica lei per l’ Italia?

Torino

Caro Alessandro,

Abbiamo impiegato secoli per arrivare a mettere bambini e bambine, ragazze e ragazzi insieme nelle stesse classi (e ovviamente nelle stesse piscine). La mia personale opinione è che chi viene in Europa non può pretendere di cambiare le nostre regole, i nostri valori e anche le nostre abitudini. E in cima ai nostri valori c’è il rispetto per la libertà e la dignità della donna. Che non è piovuto dal cielo, ma è il frutto di battaglie e di sacrifici antichi. A maggior ragione in un Paese come il nostro, dove il maschilism­o è un retaggio duro a morire, spesso trasmesso dalle madri ai figli maschi.

Ovviamente la questione è molto più ampia e più seria degli orari di una piscina (anche se capisco il significat­o simbolico della storia che l’ha colpita, caro Alessandro). Pensi a cos’è accaduto a Colonia nella notte tra il 31 dicembre 2015 e il primo gennaio 2016. Una cosa talmente grave che all’inizio neppure la polizia tedesca la comprese: «Capodanno tranquillo» recitava il primo comunicato. Poi centinaia di donne trovarono il coraggio di denunciare le aggression­i che avevano subito, a opera di bande organizzat­e di immigrati. Sei mesi dopo un’inchiesta federale concluse che le donne molestate, a Colonia e in altre città della Germania, erano state 1.200. Ricordarlo non è islamofobi­a o xenofobia; è cronaca, ormai è storia. Questo ovviamente non significa colpevoliz­zare interi popoli, ma ribadire ogni giorno che chi arriva in Italia, in Europa, deve rispettare le donne. A cominciare dalle proprie mogli e dalle proprie figlie. Affidarle a uno scafista, ad esempio, non è il modo migliore di farlo.

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