Muti La sfida vinta
Il maestro riporta la sinfonica a Teheran «Musicisti iraniani e italiani si sono fusi nel nome di Verdi che parla all’uomo»
TEHERAN Cronaca di un concerto storico. Se ha un senso la parola sfida, questa è la volta buona. Non c’è un passato recente su cui contare, in Iran la Rivoluzione del 1979 vietò la musica in quanto ostacolo tra uomo e Dio, capace di turbare le menti inducendo a pensieri impuri. L’ultimo grande concerto sinfonico a Teheran risale a 45 anni fa: sul podio Karajan.
Sopra il sipario ci sono i volti accigliati e barbuti nei ritratti di Khomeini e Khamenei, le autorità religiose di ieri e di oggi. Riccardo Muti dirige musicisti italiani e iraniani, le donne (tutte) suonano col velo: giallo, rosso, nero. Alla prova generale la giovane violinista locale ritrae impacciata la mano che gli tende Muti: in pubblico una mano femminile non può stringere quella di un uomo.
Dal 1997 ad oggi, è la tappa più complessa e delicata di quei pellegrinaggi laici che sono Le vie dell’amicizia, i concerti del Ravenna Festival che in città-simbolo e di frontiera, nel nome della musica, uniscono musicisti italiani e iraniani. Il luogo della serata è stato cambiato tre volte, alla fine siamo nella sala Vahdat, un teatro all’italiana costruito nel 1967.
Sorveglianza, controlli: è ancora fresco il ricordo del 7 giugno, quando il primo attentato dell’Isis a Teheran provocò dodici morti. Cristina Muti, moglie del maestro e presidente del Festival (il concerto si replica stasera a Ravenna, il 21 va in differita su Rai1), dice che «stiamo avendo la misura di cosa vuol dire mettersi in cammino per questa missione. Se c’è difficoltà, devi avere l’umiltà di dire: me la sono andata a cercare». Ma tira fuori (accanto a un sospiro di sollievo) le sue radici romagnole ed è contenta, grata, orgogliosa. L’ambasciatore Mauro Conciatori racconta l’impresa «di trovare una verità unica che tenesse per qualche giorno. Quando fai una cosa nuova in un sistema come questo, è pericoloso, non c’è una tradizione occidentale, può essere vista come una manipolazione culturale».
In Iran si dà musica nazionale e folcloristica russa, pochi i concerti occidentali classici, Barenboim tentò di dirigere ma non vi riuscì, l’opera non si fa perché le donne possono esibirsi solo in concerti femminili corali (a parte il precedente di tre anni fa, Gianni Schicchi con giovani persiani che studiano tra Roma e Vienna). L’establishment ha il timore della colonizzazione culturale. Il recente concerto del grande direttore in Israele ha complicato le cose. Ma il mecenate italo-iraniano Hormoz Vasfi è andato da leader religiosi e politici e ha detto: «Muti è il Messi della musica, non potete lasciarvi sfuggire questa occasione».
Suonano i tamburi di pace, mentre Ravenna torna a guardare verso Oriente. Riccardo Muti ha donato un fiore, e questo fiore è stato colto: «Abbiamo messo da parte i se e i ma e siamo andati a portare la nostra voce». Due popoli lontani nella politica, nella religione, nei diritti umani e nelle regole della convivenza civile, si ritrovano uniti grazie alla musica. Oggi ciò che unisce è più forte di ciò che divide. Il maestro si mette con pazienza a cercare la qualità in 48 ore: «I musicisti iraniani hanno assorbito bene le prove. Non volevamo fare l’esecuzione del secolo, ma italiani e iraniani si sono fusi e confusi nel nome di un autore che parla all’uomo dell’uomo». Ha diretto i due inni nazionali, ha ricordato il bianco, rosso e verde che accomunano le due bandiere e si è tuffato nel suo amato Verdi, perché «è una musica universale che appartiene al cuore di tutti». Alla fine dell’esecuzione lunghi minuti di applausi anche dai viceministri iraniani per le arti Ali Moradkhani e per gli Esteri Majid Takht-e Ravanchi; dalla sottosegretaria ai Beni ed alle attività culturali Dorina Bianchi; dal portavoce del ministero degli Esteri Bahram Ghassemi; dal direttore generale della Fondazione Roudaki che ha ospitato l’evento.
Dai suoi musicisti Muti vuole un suono organistico per la Sinfonia de La forza del destino; chiede un diminuendo freddo come il ghiaccio; mette a nudo il senso della morte di Patria oppressa dal Macbeth, che a lui ricorda le processioni funebri ascoltate da giovinetto; lavora sulla verità dei sentimenti di un pianissimo; distingue tra volume e intensità. I giovani della sua Orchestra Cherubini sono affiancati da elementi di otto Fondazioni liriche (Scala, tra cui il primo violino Francesco Manara e il primo violoncello Massimo Polidori, che furono assunti, giovanissimi, da Muti, emanazione di un cammino intrapreso insieme). Poi Firenze, Roma, Bologna, Napoli, Bari, Palermo, Genova; coristi di Piacenza e locali, e la ricostituita Teheran Symphony Orchestra che l’ex presidente Mahmud Ahmadinejad aveva sciolto.
«Oggi ci sono donne iraniane in orchestra e coro, è una conquista innovativa», dice Muti. Ha lavorato con tre cantanti di alto rango, Luca Salsi, Piero Pretti e Riccardo Zanellato. Cantando, Salsi mette una mano sulla spalla di Pretti, la loro ultima parola nel duetto dal Don Carlo è «Libertà».
Successo Alla fine della serata lunghi applausi nella sala Vahdat. Stasera si replica in Italia
Una tappa complessa però abbiamo messo da parte i dubbi per far sentire la nostra voce
Quella dell’autore di Busseto è un’opera che è di tutti e noi non volevamo fare l’esecuzione del secolo