Il funerale può attendere
Nell’antica Roma nemmeno il padrone più feroce si sarebbe azzardato a impedire al suo schiavo di partecipare a un funerale, se non altro per timore scaramantico degli effetti di un diniego. La barista Fulvia di un centro commerciale del Duemila ha invece rivelato all’Espresso di non essersi potuta allontanare dal lavoro per seppellire un parente stretto perché non aveva dato un preavviso di sette giorni. I padroni moderni non sono scaramantici, non hanno legami affettivi con gli schiavi e, abituati a gestire le loro aziende plastificate tramite algoritmi, forse immaginano che ne esista uno per prevedere la morte con una settimana di anticipo. C’è una legge che concede tre giorni di permesso retribuito in caso di esequie dei propri cari, ma non si applica agli schiavi come Fulvia. Lei lavora in nero da una vita.
Visto da una prospettiva liberale, lo scandalo non è neppure che ci siano contratti del genere, ma che abbiano smesso di essercene altri. Se il capitalismo funzionasse ancora, Fulvia invece che una lettera ai giornali ne avrebbe scritta una di dimissioni, trovando fuori dalla porta una folla di altri lavori. Invece fuori dalla porta c’è solo una folla di poveracci pronti a prendere il suo. Così le tocca subire in silenzio, coprendosi dietro un mezzo anonimato per paura di perdere le proprie catene, che per quanto miserabili sono le uniche a disposizione. Ma questa precarietà che mortifica la concorrenza, gli stipendi e gli esseri umani sarà il funerale del capitalismo. La storia di Fulvia valga come preavviso.