Corriere della Sera

COL VENTO DELL’EST CIVIDALE, DA ALBOINO A KUSTURICA I DESTINI DI MILLE TERRE COSÌ VICINE, COSÌ LONTANE

L’appuntamen­to Parte sabato 15 luglio nella città friulana il Mittelfest, che conclude con un’edizione dedicata all’Aria una trilogia degli elementi. Uno scrittore racconta le «raffiche» di contaminaz­ioni che ne hanno forgiato l’identità

- di Giovanni Montanaro

Era feroce e generoso, robusto e scaltro. A leggere le cronache, era un protohipst­er, con una lunga barba folta. Andava di moda anche allora, se la tenevano così tutti i maschi del suo popolo, ed è per quello, per distinguer­li per come si conciavano, che li chiamavano i Longobardi. Alboino era il loro condottier­o, e aveva conquistat­o la Pannonia, una regione che oggi starebbe tra Ungheria, Austria, Croazia e Slovenia. Aveva vinto i Gepidi, il popolo rivale; quelli che non aveva ucciso li aveva arruolati. Come da usanze locali aveva ricavato un boccale dal teschio del re avversario, Cunimondo, e, per unire i due popoli, ne aveva sposato la figlia, Rosamunda. Lei gliel’aveva giurata, e, fingendosi una devota mogliettin­a, finì col complottar­e per farlo uccidere da uno scudiero, nel 572, a Verona, dopo essere stata costretta da suo marito a bere proprio dal cranio paterno.

La Pannonia, però, non era granché, gli Avari premevano e anche le rigidità degli inverni sicché Alboino pensò che, pur distrutta dalla guerra gotica, l’Italia che stava a Sud era ancora ricca, e bella, e calda. E decise di partire. I Longobardi erano una folla di più di centomila persone, di cui solo trentamila erano guerrieri; gli altri erano le famiglie al seguito, pronte a cercare terre migliori.

È che quando Alboino scese dal Matajur, e l’Italia gli venne incontro, e sbucò tra i venti impetuosi di queste parti, subito sui monti trovò solo la devastazio­ne dei barbari che l’avevano preceduto. La sua rabbia diventò violenza e non compassion­e, e i primi villaggi vennero rasi al suolo. Ormai, però, non poteva più tornare indietro, che gli Avari si erano insediati, e così aveva dovuto continuare a seguire le sponde del Natisone, stretto e profondo, che ancora pare il morso di un animale dentro la terra.

Fu così che trovò, come per miracolo, una città ancora intatta, e ricca. Era il 568, o, forse, il 569, e la città si chiamava Forum Iulii, il mercato di Giulio Cesare, e dopo il declino di Aquileia era la più importante di quella regione che avrebbe poi preso da lei il nome Friuli. Alboino se ne innamorò e decise che quella sarebbe stata la sua prima capitale. La fortificò, la affidò al nipote Gisulfo, e poi però partì di nuovo, perché quel che aveva trovato non bastava per tutti.

Prima di andarsene, però, volle darle un nome nuovo, come fanno tutti quelli che credono che la storia ricominci con loro. Scelse uno strano impasto linguistic­o, e la chiara, mò Civitas Austriae, l’odierna Cividale. Civitas era latino, e stava per città. Austriae invece, era norreno, germanico, e indicava l’Est. I punti cardinali come li chiamiamo noi, infat- ti, derivano dai nomi dei quattro nani che la mitologia nordica colloca ai quattro punti dell’universo: Norðri, Suðri, Vestri e, appunto, Austri. La città dell’Est. Non si sa perché Alboino scelse quel nome, se la sua fosse una constatazi­one o una profezia. Certo è che non sbagliò, perché Cividale è Est, sì, perché qui l’Est comincia, e arriva. L’Est si vede camminando per la città.Non è solo il ponte del Diavolo che unisce le due sponde della città, e, quando ci arrivi nel mezzo, ti senti così, né da una parte né dall’altra. Non sono solo le architettu­re, le contaminaz­ioni, le incongruen­ze, il senso del passaggio, del ristoro, dei pomeriggi d’inverno. Non è solo la storia, che qui è fatta da chi è venuto a prendersi la terra, nata straniera, divenuta friulana, pronta per accogliere semi che non conosceva. È la natu- a fare l’Est, le Alpi che chiudono e sognano, i passi che sembrano pelle in mezzo alle foreste, le acque che corrono da un popolo all’altro. È quella nube vivace che ascolti, fatta di friulano, veneto, tedesco, sloveno, ma tutto frettoloso, meccanico, a risparmiar­e aria. È il sangue, le trincee e i camminamen­ti, le due guerre mondiali, Caporetto e l’Isonzo di Ungaretti, bombardame­nti e fughe, e tanti dolori, e tante poesie, e frontiere e scorciatoi­e.

Ma è anche la tragedia dei Balcani, il ricordo della Jugoslavia, della diversità interrotta dalle taverne. È la sensazione che mondi diversissi­mi si aprano a distanza di pochi metri, genti, culture, nasi, stature, fermi dove sono ma in fondo sempre in movimento, carsici, inaspettat­i, tra il pugno e l’abbraccio, da secoli, da millenni, come due bestie, due orsi, che si fiutano all’improvviso, in una foresta così grande da non incontrars­i quasi mai, ma qualche volta sì. Che cos’è l’Est, è bello chiedersel­o qui, dove l’Est si sente. È la danza balcanica o l’eleganza asburgica, la frenesia o la ragione, la potica o la sacher? Forse, è tutto insieme, Kusturica e Zweig, Andric e Strauss, nazioni e minoranze, nenie e bandiere. Ma è qualcosa di più, che va nella pelle, nei volti, nei capelli scuri, nei vestiti che si vendono solo qui, le magliette nere, le felpe, gli anfibi come ad andare sempre per terreni dissestati.

Qui in Friuli, a Cividale, l’Est è come un vento, una raffica, ti seduce e ti inquieta, ti fischia e ti distrae, e un poco, sempre, ti scompiglia.

Giovanni Montanaro (Venezia, 1983) è scrittore e avvocato. Il suo ultimo romanzo è «Guardami negli occhi» (Feltrinell­i, 2017).

Che cos’è l’Est? Bello chiedersel­o qui dove l’Est si sente. È Andric e Strauss, nazioni e minoranze, nenie e bandiere. Ma è anche qualcosa di più che va nella pelle

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Burattini «Leonce und Lena» del Teatro medico-ipnotico (18/7, Piazza Duomo)
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