Liu Xiaobo, morte di un condannato Addio al dissidente cinese eroe di piazza Tienanmen Malato di cancro, 61 anni, è stato controllato dal regime fino all’ultimo respiro
A. Merkel A. Guterres (Onu) Donald Tusk (Ue)
«Liu Xiaobo è morto di cancro al fegato all’età di 61 anni». Lo ha detto così la stampa cinese ieri notte, senza ricordare che Liu Xiaobo era il Premio Nobel per la Pace 2010: un riconoscimento considerato da Pechino come una provocazione internazionale, un’indebita ingerenza nei propri affari interni. Perché nel 2010 il letterato Liu era già in prigione, condannato a 11 anni per «attività tese a sovvertire l’ordine dello Stato». La sua colpa: aver scritto «Charter 2008», un documento politico nel quale invocava multipartitismo e democrazia per la Cina, sottoscritto da centinaia di intellettuali.
Le sue ultime settimane sono state tristissime, controllate fino all’estremo istante dalle autorità. A maggio, dopo otto anni di detenzione, gli era stato diagnosticato un tumore al fegato in stato ormai terminale. Il 26 giugno lo avevano trasferito in un ospedale della città di Shenyang, vicina alla prigione, nella provincia nordorientale di Liaoning.
«Libertà condizionale per
Valoroso combattente per i diritti civili Profondo dolore per Liu Xiaobo
motivi medici», avevano annunciato le autorità che volevano evitare l’imbarazzo della morte in cella.
In realtà, Liu non era libero, perché se lo fosse stato nessuno gli avrebbe potuto negare di andare all’estero per tentare un ultimo ciclo di cure e ritardare la morte.
Se lo fosse stato davvero, lo avrebbero fatto partire con la moglie, dandogli almeno la consolazione di aver salvato lei dalla repressione e da arresti domiciliari senza alcuna imputazione, solo per essere la compagna fedele di un dissidente. Invece il sistema è stato inflessibile, ha ripetuto che Liu era solo un condannato, un affare giudiziario interno. E Il sorriso Un’immagine con il volto del dissidente cinese Liu Xiaobo proiettata nel centro di Oslo dopo la cerimonia del Nobel nel 2010 (Reuters) poi, per negare comunque il trasferimento all’estero, che avrebbe significato la libertà prima della morte, è cominciato uno stillicidio di informazioni, foto e filmati diffusi da fonti anonime, ma sicuramente legate al sistema carcerario. Prima un video nel quale Liu veniva assistito da personale medico e ringraziava per le cure. Poi annunci sempre più drammatici sul deterioramento delle condizioni e l’impossibilità di ogni trasferimento. Ancora, la convocazione per un consulto di due medici occidentali, un americano e un tedesco, che dopo la visita avevano elogiato il lavoro dei colleghi: tutto filmato per dimostrare la correttezza del trattamento. Però, i due medici stranieri avevano osservato che il paziente si sarebbe potuto trasferire, come aveva chiesto, in Germania o negli Stati Uniti.
In questo balletto tragico, le autorità cinesi e la stampa statale hanno continuato a ripetere che non c’era alcun motivo perché dall’estero arrivassero invocazioni: Liu era un semplice caso giudiziario. Ma tutte le informazioni e i filmati diffusi dall’ospedale nel quale era tenuto dimostrano l’esatto contrario: fino all’ultimo respiro il dissidente è stato considerato un pericolo per il potere.
Per la verità, anche dall’Occidente la pressione non ha superato un livello minimo, quel tanto per evitare un silenzio assoluto. Non risulta che la questione del Nobel sia stata sollevata nei colloqui tra i leader mondiali e il presidente cinese Xi Jinping al G20 di Amburgo.
Da Berlino, dopo la partenza di Xi, la cancelliera Merkel ha invocato sommessamente un gesto umanitario; in extremis anche gli Stati Uniti hanno chiesto a Pechino di lasciar partire Liu Xiaobo, per farlo morire libero. Ma non è stato Donald Trump a intervenire, solo una portavoce della Casa Bianca durante un briefing di routine. Ieri sera, dopo la morte, il segretario di Stato Rex Tillerson ha chiesto la liberazione della vedova.
Liu Xiaobo divenne celebre nel 1989: insegnava alla Columbia University di New York, ma tornò a Pechino per la protesta della Tienanmen; si schierò con gli studenti e però li implorò alla fine di ritirarsi per evitare il massacro.
Fu incarcerato una prima volta a due anni. Poi tre anni di campo di rieducazione, dal ’96 al ’99.
Nel 2008 pubblicò «Charter 08», che si ispirava alla «Charta 77» dei dissidenti cecoslovacchi
Che Liu Xia ora possa piangerlo in pace Il divieto
A Liu Xiaobo è stato negato il permesso di andare all’estero per un ultimo ciclo di cure
La richiesta Usa
Dall’Occidente solo una pressione minima. Ieri Tillerson ha chiesto la liberazione della moglie
durante l’era sovietica: il letterato cinese chiedeva aperture democratiche, non la fine del governo comunista. Bastò per la dura condanna a 11 anni.
Era in cella quando nel 2010 gli fu assegnato il Nobel e la sua sedia rimase vuota alla cerimonia di consegna.
Se fosse stato libero di tenere il suo discorso, Liu Xiaobo avrebbe potuto leggere qualche brano del suo manifesto politico: «La Cina è una grande nazione, il cui sistema politico continua a produrre disastri sul fronte dei diritti dell’uomo... spero di poter essere l’ultima vittima dell’inquisizione».