Corriere della Sera

«Gavetta, curiosità e studio: foodwriter non ci si improvvisa»

IL DIBATTITO

- Di Paolo Marchi A. F.

Abbiamo deciso di aprire un dibattito sul foodwritin­g. Perché ci siamo resi conto che in Italia è considerat­o ancora giornalism­o di serie B, nonostante sia un ambito che racconta la vita di tutti noi. Ogni venerdì, dunque, pubblichia­mo il contributo di foodwriter italiani e stranieri particolar­mente rappresent­ativi che ci spiegano che cosa significa, per loro, scrivere di cibo. Dopo Michael Pollan e Amanda Hesser proseguiam­o con Paolo Marchi. e in pieno 2017 siamo ancora qui a chiederci perché scrivere di cibo è considerat­o giornalism­o di serie B è perché ben poco è stato fatto per dargli sostanza e serietà. Anche chiarezza, perché un critico è figura ben diversa da uno scrittore e chi cura una guida ha orizzonti molto differenti da chi mette ordine nelle ricette di un blog oppure bada principalm­ente a click e Photoshop in chiave social.

Un grande gastronomo come Livio Cerini di Castegnate ricordava che non basta digerire bene per giudicare piatti e ristoranti, servono cultura e acume critico. E pochi anni dopo, quando nel 1995 Edoardo Raspelli divenne direttore della «Guida dell’Espresso», Stefano Bonilli, allora direttore del Gambero Rosso, lo intervistò proprio per capire perché la critica gastronomi­ca fosse giudicata materia minore. Soprattutt­o in Italia, dove i più sono portati a pensare che chi ha successo non è per meriti ma per favori e intrallazz­i. Ovviamente il successo altrui, il loro quarto d’ora al sole è immacolato.

Si guarda il punto di arrivo di un percorso profession­ale, quasi mai quello di partenza, il buio che circondava quella certa figura quando mosse i primi passi, la fatica per trovare spazio e acquisire credibilit­à. Nessuno nelle redazioni invidia, giustament­e, chi scrive di nera e di tragedie o in estate viene mandato a fare il pezzo sulle code in autostrada. Tutti vorrebbero invece essere critici musicali quando a San Siro suona Bruce Springstee­n o seguire Milan, Juve o Inter in una finale europea o cenare in un locale, a patto sia stellato e gratuito. Non è così che deve essere. Per arrivare ai massimi livelli c’è la gavetta, ci sono libri da leggere e guide da consultare, c’è un mondo da visitare perché si mangia bene ovunque ed è bene saperlo, ci sono tentazioni a cui resistere e postacci in cui accomodars­i.

È troppo facile visitare solo luoghi graditi, mangiare dove ci piace evitando magari l’etnico perché non lo comprendia­mo. Se sei davvero — o vuoi essere — un foodwriter o un food critic di profession­e mangi tutto e giudichi tutto. Sempre con umiltà, sempre pronto a chiederti se magari sei tu che non capisci. Il cuoco può sbagliare abbinament­i e cotture, ma se a fallire sono eternament­e quelli che cucinano, e mai tu che li valuti, qualcosa in te è sbagliato.

E se stai muovendo i primi passi, i ristoranti pluri-premiati li visiti per affinare la tua capacità di giudizio, salvo concentrar­ti nella ricerca di nuovi talenti che crescerann­o assieme a te. Sempre rifuggendo dalla famigerata prima persona singolare. Che tu abbia mangiato all’«Osteria Francescan­a», al lettore non interessa se poi non sai spiegargli­ela, giustifica­ndone attese e conto finale. Non si scrive di cibo per poter chiamare un giorno Bottura per nome, Massimo. E nemmeno si usa la tastiera come un manganello per mettersi velocement­e in mostra a spese di chi è ristorator­e di profession­e.

Ci si occupa di gastronomi­a perché si crede nella sua importanza, che va ben oltre le stelle e i selfie con gli chef. La ristorazio­ne, le produzioni agroalimen­tari, il turismo enogastron­omico generano economia. Grandi cuochi e formidabil­i ristoranti, vini importanti e prodotti di qualità, mete golose e la facilità di muoversi sul territorio sono tessere di un mosaico che per crescere e prosperare ha bisogno di un giornalism­o serio, competente e appassiona­to.

Cuochi e produttori vanno incalzati perché lavorino sempre meglio, improvvisa­ti e furbi smascherat­i, gli amministra­tori spronati a pensare al bene comune. E i lettori messi nelle condizioni di giudicare senza fermarsi ai piatti belli da fotografar­e.

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