1960, Moravia si autointervista E Montale recensisce La noia
«Moravia e il suo doppio» avrebbe probabilmente sentenziato Otto Rank leggendo l’autointervista dell’instancabile romanziere e narciso controvoglia raccolta negli apparati d’una riedizione fresca di stampa d’un romanzo famoso La noia (Bompiani), da considerarsi insieme con Gli indifferenti una delle opere moraviane più significative. La sua uscita provocò un mezzo terremoto nel (dopotutto) piccolo mondo delle lettere romane e italiane. D’altronde Moravia, non bisogna dimenticarlo, era all’epoca, cioè agli inizi degli anni Sessanta, già stato monumentalizzato da decenni di aspre polemiche provocate dai soliti moralisti e benpensanti afflitti da miopia congenita.
Oggi è difficile immaginare le reazioni provocate dall’apparire di questi nove capitoli più un prologo e un epilogo scritti non già in terza persona al modo consueto di Moravia ma in prima persona. A giustificare questa sua scelta l’autore avrebbe in più occasioni e con diverse parole sostenuto l’impossibilità ormai di raccontare «in maniera obbiettiva, diretta e realistica». Più avanti, all’inizio degli anni Settanta, sarebbe giunto a scrivere che «questo modo “stupido” di raccontare andava lasciato ai narratori di consumo».
Della Noia si scrisse molto e si discusse ancora di più. Basti che il romanzo, pubblicato il 24 novembre 1960, in dicembre era già alla quarta edizione superando presto le 120 mila copie vendute. Eugenio Montale, al solito intelligentissimo, in una recensione «staffetta» (opportunamente riprodotta in questa ennesima riedizione per palati esigenti e giovani desiderosi di apprendere) riesce a essere contemporaneamente divulgativo, perfido però non distruttivo, lasciando l’impressione di fondo che lui futuro premio Nobel sta parlando con qualche riserva d’occasione d’uno dei più grandi narratori italiani del ventesimo secolo. Si, è vero, lo Svevo di Senilità cui accosta Moravia lui lo preferisce ma per una questione di gusto, di sensibilità, di mera affascinazione. Parla chiaro, da questo punto di vista, l’autore di Dora Markus: «L’Angiolina sveviana è in definitiva una donna perduta, Cecilia si avvicina singolarmente a Lolita». Le donne perdute si comprano e espiano la loro perdizione, le Lolite invece...
Stiamo alla Noia. Il personaggio di Cecilia, riuscitissimo, verrà confermando la sua necessità lungo l’arco d’un decennio che vedrà mutare profondamente costumi e desideri. In questo senso La noia è un romanzo aurorale forse un po’ soffocato proprio da troppe coraggiose intenzioni.
Torniamo all’ autointervista. Di che si tratta? È presto detto. La curatrice Alessandra Grandelis, tenacissima esploratrice di archivi, ha stavolta scovato un’ autointervista di Moravia apparsa su «L’Espresso» il 20 novembre 1960 mentre La noia raggiungeva le librerie. L’autore, che sapeva d’aver lanciato un sasso nello stagno, palpitava. Così, obbedendo probabilmente a un suggerimento dell’ansia, si sdoppia. Anticipa una specie di processo da cui spera di riuscire assolto.
Affida a una parte di sé che chiameremo Alberto il compito di rivolgere in tono da svogliato censore all’altro cioè allo scrittore Moravia una sfilza di domande insidiose proprio perché sostanzialmente banali. Qualche esempio. «Sarà il caso che lei dica che cosa è questa noia, non le pare?», oppure «Chi è il protagonista, uno scrittore?», «Sarebbe dunque il suo un romanzo con un lieto fine, un romanzo ottimista?», «Lei crede nel romanzo saggistico o ideologico o di idee?».
Si potrebbe continuare con gli esempi ma i pochi elencati bastano a dare l’idea. Alberto si immedesima, come solo può fare un vero narratore, in un funzionario anonimo e cinico. Un po’ d’après Kafka. Nelle risposte, sempre da autentico narratore, l’altro, cioè Moravia, fa sentire il bisogno di giustificarsi presente in chi «deve» rispondere. L’intervista diventa così un breve, illuminante pezzo di teatro in appendice al romanzo.