Essere Zoe Kazan
«Sul set difendo l’integrazione razziale Non giudico mio nonno sul maccartismo Da lui ho ereditato le passioni letterarie»
«Non sono mai stata intimorita dal cognome che porto: Kazan. Mio nonno Elia, il regista di tanti film celeberrimi da Un tram che si chiama Desiderio a Fronte del porto è stato il mio faro. Mi ha trasmesso la sua passione per la letteratura», dice Zoe Kazan. Non solo nipote, ma anche figlia d’arte: suo padre Michael Kazan è uno dei più brillanti sceneggiatori americani.
E’ in corso un ricambio generazionale a Hollywood. Una delle punte di diamante di questa nuova leva è appunto Zoe, 33 anni. La storia di cui è protagonista, la commedia romantica The Big Sick prodotta da Judd Apatow, è molto amata dai critici. Per il New York Times «uno dei migliori film d’amore e di lotta, di politica e sentimenti, capace di sconfiggere con la sua intelligenza e diversità qualsiasi pellicola con supereroi attraverso la storia vera del matrimonio misto tra un pachistano e una americana». The Big Sick, lanciato all’ultimo Sundance, è stato acquistato da Amazon per 12 milioni di dollari. Sarà distribuito in Italia da Cinema di Valerio De Paolis.
Laureata a Yale, lei si divide tra cinema, teatro e tv. E’ anche scrittrice. Come concilia queste attività?
«Sono l’una collegata all’altra. Sono un’eredità per tutti i Kazan».
Da suo nonno che cosa ha imparato?
«La passione per la scelta di ogni parola e la convinzione che la lettura aiuta sempre. Amo scrittori come John Fante, Sylvia Plath, Flannery O’Connor. E, naturalmente, ho letto i libri del nonno: da America America a Il compromesso dal quale fu tratto il film con Kirk Douglas. La valle dell’Eden mi ha insegnato a studiare John Steinbeck e il suo viaggio letterario nella California».
«The Big Sick» diretto da Michael Showalter è già definito «un film antiTrump»...
«The Big Sick celebra la diversità e l’integrazione tra due culture diverse, tra la vita e la malattia, le tradizioni e la rivolta per amore da esse. E’ un racconto autobiografico di Kumail Nanjiani. Lo ha scritto con la moglie americana, Emily V.Gordon, da me interpretata. La loro unione ha messo al tappeto le aspettative della famiglia perché nel clan musulmano di Kumail io sono la straniera. Ma la coppia multienica vince...»
Lei sta girando con James Franco e Maggie Gyllenhaal la serie «The Deuce» ambientata nella New York degli anni Settanta e Ottanta: storie di prostituzione e droga. Cosa vuole anticipare?
«In tempi come quelli di oggi in cui tutti sembrano essere liberi, la fiction insegnerà ai giovani molto. Li aiuterà ad analizzare pericoli, dipendenze, eccessi. Mi interessa sempre interpretare film ancorati al reale, ma non disdegnerei affatto un kolossal con una supereroina. Sono americana. facendo la mia autocritica, mi piacciono i supereroi e gli horror».
L’avrebbe detto al nonno?
«Certamente: i suoi film celebrano la diversità, i generi più disparati. Ha girato storie tra loro molto differenti e nei suoi film si batteva contro ogni ipocrisia».
E il maccartismo?
«Io non ho mai giudicato tante cose dette sul maccartismo, su mio nonno accusato di tradimento ai tempi delle liste di proscrizione a Hollywood contro gli autori sospettati di comunismo. Studio, leggo, analizzo. Fu autore di titoli coraggiosi come Gentleman’s Agreement».
In Italia venne intitolato «Barriera invisibile»...
«Le barriere invisibili devono essere sempre sconfitte, discusse. The Big Sick, in un’America divisa, lo fa».
Barriere Il mio Paese è spaccato, le barriere devono essere abbattute. La mia commedia tenta di farlo