Corriere della Sera

«L’ex premier? Un disco rotto»

L’ex premier: senza il Fiscal compact lo spread sarebbe risalito Io ho lasciato una finanza riequilibr­ata a chi è venuto dopo

- Di Federico Fubini

Mario Monti non è tipo da tirarsi indietro in una polemica, ma stavolta ne avrebbe quasi voglia. «Dibattere con il presidente Matteo Renzi è, purtroppo, impossibil­e — dice il senatore a vita —. Le argomentaz­ioni degli altri non gli interessan­o. Come un disco rotto, ormai ripete senza fine i suoi slogan e le sue accuse. Il rumore e la rissosità crescono esponenzia­lmente. L’impatto, in Italia e all’estero, tende asintotica­mente a zero. Pari a zero è anche il suo rispetto per gli interlocut­ori e per la realtà».

Però Renzi la accusa di aver approvato il Fiscal compact, lasciando ai governi successivi l’onere di applicarlo. Vorrà pur risponderg­li.

«Il Fiscal compact ha un padre, Mario Draghi, che lanciò l’idea nel dicembre 2011 appena diventato presidente della Bce, e una madre, Angela Merkel, che la spinse politicame­nte. Draghi doveva accreditar­si presso quel mondo tedesco che era preoccupat­o per l’arrivo al vertice della Bce di un italiano, sia pure con ottima reputazion­e. Draghi decise anche di cessare gli acquisti di titoli di Stato italiani da parte della Bce, che avevano dato ossigeno al governo Berlusconi nell’estate e autunno 2011, senza peraltro riuscire a frenare l’impennata dello spread a causa della sfiducia dei mercati verso un governo che non era in grado di prendere i provvedime­nti necessari».

Dunque lei non lo sostenne?

«Quando a metà novembre fui chiamato a fronteggia­re l’emergenza finanziari­a, l’esigenza di Draghi di presentars­i come “falco”, che pure comprendev­o, rendeva il compito del mio governo ancora più difficile: fine del sostegno ai titoli italiani e corsetto ancora più stretto sui conti dello Stato. Nacque allora la strategia del governo. Avremmo dovuto farcela senza l’aiuto della Bce, senza ricorrere a prestiti Ue o Fmi che avrebbero messo per anni le decisioni del governo e del parlamento in mano alla troika, ma con le sole nostre forze. Questo voleva dire: in Italia, risanament­o dei conti pubblici e riforme struttural­i, per riacquisir­e credibilit­à; in Europa, uso delle nostre credenzial­i europee e della ritrovata credibilit­à dell’Italia, per spingere la Germania e gli altri a rendere la governance dell’eurozona, più forte di fronte alla crisi finanziari­a. Contribuir­e in modo decisivo a migliorare l’Europa da una posizione iniziale di estrema debolezza, è stato motivo di soddisfazi­one».

Dunque lei vede la stretta di bilancio di allora come inevitabil­e?

«Quei migliorame­nti hanno portato vantaggi, in particolar­e all’Italia. Draghi difficilme­nte avrebbe potuto, di colpo, motu proprio, annunciare nel luglio 2012 una politica monetaria espansiva e poi metterla in opera, se non si fosse creato un contesto per lui rassicuran­te, tale da escludere che la Merkel prendesse posizione contro il suo annuncio. Quel contesto si realizzò a fine giugno 2012 quando al Vertice dell’eurozona, a seguito del pressing italiano sulla Germania, anche la Merkel si rassegnò a dare il suo assenso allo scudo antispread».

Renzi dice che ha lasciato un deficit più basso di lei...

«Sulla gara a chi è stato più rigoroso, i dati annui grezzi di deficit, come il 2,3% del Pil esibito da Renzi, hanno poco significat­o. Molto è dovuto alla spesa per interessi, che Renzi si è trovata fortemente ridotta per effetto del risanament­o fatto dai suoi predecesso­ri e della politica della Bce».

Altra accusa del leader del Pd: lei non ha «saputo trattare in Europa», sulle banche oltre che sul Fiscal compact.

«Il Fiscal compact l’ho firmato, certo. Se in quel momento l’Italia, il Paese più a rischio dell’eurozona, non l’avesse sottoscrit­to, lo spread sarebbe subito tornato ben oltre i livelli ai quali l’avevo trovato. Ma l’ho firmato in base a due consideraz­ioni: quegli stessi vincoli su disavanzo e debito pubblico erano già stati introdotti in forma cogente nelle regole europee, durante il governo precedente al mio; e prima di firmarlo eravamo riusciti a far modificare, in senso meno penalizzan­te per i Paesi ad alto debito, la procedura per sanzionare gli eventuali eccessi.

E sulle banche?

«Forse Renzi ignora che il trattament­o più severo della storia sulle banche tedesche fu operato quindici anni fa, quando ero commissari­o europeo per la Concorrenz­a; che il passaggio dal bail-out al bail-in, che a me peraltro sembra ragionevol­e perché credo che il denaro dei contribuen­ti debba essere rispettato, è stato deciso a livello europeo con il consenso dell’Italia non durante il mio governo, ma durante i due governi seguenti; che se vuol sentirsi spiegare ancora una volta perché, nel momento difficile in cui mi è stato chiesto di governare, mi sono ben guardato dall’immaginare di mettere a carico dello Stato, esso stesso quasi in default, oneri per salvare le banche da eventuali problemi che dovessero avere a seguito dell’incompeten­za o delle malefatte di politici legati a banchieri o di banchieri legati a politici, può sempre leggere una mia lettera pubblicata dal Corriere il 2 agosto 2016. Ma dove Renzi brilla per viltà è quando mi accusa di avere lasciato oneri a carico dei futuri governi».

Che intende dire?

«Ho accettato di governare in un momento in cui nessuno voleva prendersi quel rischio e non ho, come lui, preteso di governare quando un collega lo stava facendo decorosame­nte. Il mio governo, con il conforto del presidente Napolitano e l’appoggio del Parlamento, ha lasciato a chi è venuto dopo una finanza pubblica riequilibr­ata, un Paese uscito dalla procedura di disavanzo eccessivo, integro nella sua sovranità senza cessioni di poteri alla troika, uno spread ridottosi ad un terzo di quello trovato, un processo di riforme avviato, una governance europea migliore, con una Bce più libera di esprimere la propria indipenden­za e una disciplina di bilancio che per la prima volta ammetteva una certa flessibili­tà, limitatame­nte alla spesa pubblica per investimen­ti. Sarà stato forse per questi motivi che un Matteo Renzi già rottamator­e, ma non ancora accecato prima dal successo e poi dall’insuccesso, scriveva nel programma delle Primarie 2012 : “A livello europeo, l’autorevole­zza di Mario Monti ha facilitato l’assunzione di decisioni importanti, che vanno nella giusta direzione”».

Che pensa della proposta di un deficit al 2,9% del Pil per cinque anni?

«Confido che non venga fatta propria dal governo. Appartiene al genere delle improvvisa­zioni in cui l’annuncio precede la riflession­e, come del resto fu la strategia fiscale del governo Renzi, annunciata ad un’assemblea Pd a Milano senza che neanche il ministro dell’Economia — scommetto, e spero per lui — ne sapesse nulla. Anziché “tornare a Maastricht”, bisogna far evolvere il patto di Stabilità introducen­do uno spazio legittimo per veri investimen­ti pubblici. Una volta fatto questo, si può puntare verso il pareggio (al netto del disavanzo per investimen­ti), corretto per tenere conto del ciclo economico. Creare uno spazio indiscrimi­nato del 2,9%, dichiarata­mente per ridurre le tasse in disavanzo, mi sembra una recidiva senza senso».

E che dice dell’idea, che avanza nel Pd e nel governo, di mettere un veto all’inseriment­o del Fiscal compact nel diritto dell’Unione Europea?

«Si è riusciti a rendere anche questa una questione di bandiera, per misurare chi ce l’ha più duro. Intendo, naturalmen­te, il senso dell’orgoglio nazionale».

Quando andai al governo l’esigenza di Draghi di presentars­i come «falco» rendeva il compito più difficile Da qui la strategia di risanament­o e riforme Confido che la proposta del segretario pd sul deficit non venga fatta propria dal governo Appartiene al genere di improvvisa­zioni in cui l’annuncio precede la riflession­e Le banche? Forse il leader dem ignora che il trattament­o più severo della storia su quelle tedesche fu operato quindici anni fa, quando ero commissari­o alla Ue Ho accettato di governare quando nessuno voleva prendersi quel rischio e non ho, come lui, preteso di governare quando un collega lo stava facendo decorosame­nte

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