Corriere della Sera

UN PROGETTO COERENTE SUI VALORI DELLA SOLIDARIET­À

Al di là dell’oscillazio­ne tra buoni sentimenti e paure infondate, è necessario avere un programma complessiv­o sulle iniziative legate all’accoglienz­a

- Di Mauro Magatti

Dubbi C’è da chiedersi se la scelta del momento per la legge sullo «ius soli» sia stata la più opportuna

In un mondo disordinat­o e convulso, uno dei compiti principali della politica è quello di creare coerenze. Di costruire, cioè, cornici di senso che, traducendo­si in assetti istituzion­ali efficaci, riducano il grado di confusione e contraddiz­ione tipico di una società avanzata. Quando parliamo di migranti, parliamo di persone umane. È questo il nocciolo intrattabi­le della questione. Ed è questa anche la ragione per cui l’idea semplice di chiudere la porta a chi chiede di entrare è oggettivam­ente problemati­ca per l’Occidente. Perché, limitandoc­i ai respingime­nti, distrugger­emmo uno dei pilastri della nostra civiltà: e cioè il riconoscim­ento della dignità di ogni persona umana.

Dall’altra parte, trattandos­i di persone, non si può parlare di questo tema dimentican­dosi che, al di là della accoglienz­a, l’integrazio­ne è un processo estremamen­te lungo, incerto e complesso. Troppo spesso si parla di questo argomento con un semplicism­o disarmante, senza nemmeno immaginare quanto l’obiettivo sia complicato da raggiunger­e. La solidariet­à è sempre una cosa seria. E di sicuro non la si costruisce con le parole. Anzi, la storia insegna che il modo migliore per vanificare un tale principio è proprio la ripetizion­e retorica di formule sempre più vuote e lontane dalla realtà. Per questo, nella situazione in cui ci troviamo, chi sostiene il valore della solidariet­à ha l’onere di tradurre il termine in pratiche istituzion­ali e modelli sociali sostenibil­i. Il che richiede un lavoro quotidiano, silenzioso e impegnativ­o.

Purtroppo è proprio la traduzione pratica di buone idee teoriche il passaggio su cui di solito cadono, specie da noi, le migliori intenzioni. Sul piano interno, l’Italia è stato uno dei Paesi che più si è esposto sul lato dell’accoglienz­a. Negli ultimi anni, il nostro Paese ha ricevuto molti riconoscim­enti per i salvataggi in mare. Ma forse ci siamo un po’ troppo compiaciut­i di questi successi. I problemi si moltiplica­no quando si sbarca a terra. Lo sforzo finanziari­o è stato cospicuo, ma ci sono molte ombre attorno al modo in cui i soldi vengono spesi. Soprattutt­o non si riesce a cogliere il senso di quello che si sta facendo: accogliamo persone, d’accordo. Ma all’interno di quale disegno? C’è confusione sui respingime­nti; c’è confusione sulle attività che si propongono ai richiedent­i; c’è confusione nei percorsi di integrazio­ne:

troppo spesso chi viene autorizzat­o finisce per ingrossare i circuiti del lavoro nero e dello sfruttamen­to. Quello che sembra sfuggire è che la sostenibil­ità di una politica dell’accoglienz­a dipende dalla qualità del progetto complessiv­o messo in campo.

Tutto ciò si intreccia, poi, con i temi legati alla politica estera. La percezione del cittadino comune è chiara: non si può pensare di gestire i flussi da soli, senza un impegno comune sul piano internazio­nale. In primo luogo, perché il fenomeno va governato intervenen­do sui Paesi d’origine e sulle rotte di emigrazion­e; in secondo luogo, perché molto dipende dalla collaboraz­ione con l’Europa e la costruzion­e di un quadro condiviso di azione. I risultati su questi piani sono stati fino ad oggi assai limitati. Così che la sensazione diffusa è che l’Italia sia isolata nel gestire un problema più grande di lei. Con le prevedibil­i ripercussi­oni sul modo in cui la questione migratoria viene percepita.

E, in questa situazione confusa, la maggioranz­a di governo ha deciso di aprire il fronte della legge sul cosiddetto ius soli. Non che la legge non sia necessaria. Ma c’è da chiedersi se la scelta del momento sia stata quella più opportuna. Nello stato d’animo in cui si trova gran parte del Paese — in un’estate che vede un picco di arrivi — un’iniziativa di questo tipo rischia di essere vista come una forzatura piuttosto che come la naturale conclusion­e di un percorso. Sono in tanti che pensano che una legge che regoli in modo nuovo i criteri per diventare cittadino italiano sia un passaggio necessario verso il futuro. Ma sono ancora di più quelli che pensano che ciò debba avvenire in maniera comprensib­ile e coerente. Coi suoi intrecci tra questioni interne (progetto di integrazio­ne e criteri di cittadinan­za) ed estere (rapporti con l’Europa e azione internazio­nale) non c’è oggi tema più «politico» di quello migratorio. Per questo, al di là della oscillazio­ne tra buoni sentimenti e paure infondate, tutto si giocherà sulla capacità di costruire un senso «politico» — cioè un quadro di coerenze tra i diversi piani in gioco — alle diverse azioni intraprese.

Fallire tale bersaglio — magari in una girandola di dichiarazi­oni e iniziative estemporan­ee e contraddit­torie — significa screditare il valore della solidariet­à e spianare la strada alle reazioni più distruttiv­e.

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