L’EUROPA NON CI FA SCONTI ANZI, CHIEDE IMPEGNI
Le lettere sui nostri conti pubblici in partenza e in arrivo da Bruxelles sono inevitabilmente esposte a legittime interpretazioni e alla manifestazione di esigenze di politica interna. Così è stato per la lettera inviata dal ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan alla Commissione lo scorso 30 maggio. In quella lettera, Padoan comunicava l’intenzione del governo italiano di limitare allo 0,3 per cento del Pil la correzione del deficit strutturale nel 2018, in luogo del calo di 0,8 punti indicato nel Documento di Economia e Finanza dell’aprile 2017. La richiesta di «sconto» sui tagli da effettuare era motivata da differenze di valutazione sull’entità e sul perdurare della crisi nell’economia italiana. Il ministro Padoan faceva anche riferimento al lavoro già fatto e vantava «lo sforzo duraturo e senza precedenti nell’eurozona, con particolare riguardo per l’entità dell’avanzo primario raggiunto». Ma in pratica la lettera rispecchiava la difficoltà della maggioranza di governo di impostare una finanziaria troppo severa in un anno elettorale.
Alla comunicazione del ministro dell’Economia hanno ora risposto i commissari europei Valdis Dombrovskis e Pierre Moscovici con un’altra lettera. Dombrovskis e Moscovici prendono nota della revisione al ribasso dell’obiettivo fiscale del governo italiano e annunciano che useranno discrezionalità nel valutare gli scostamenti del deficit italiano rispetto agli impegni, in considerazione dei due obiettivi del sostegno alla ripresa e della sostenibilità fiscale. E così il governo ha tirato un sospiro
di sollievo. Un sollievo giustificato perché poteva andare peggio. Una Commissione meno politica (o un ministro del Tesoro europeo) avrebbe potuto inchiodarci alle nostre promesse di pochi mesi prima e chiedere una correzione al deficit strutturale di 0,8 punti di Pil, non dello 0,3.
Ma il sollievo per la mancata o rinviata sanzione non dovrebbe spingersi troppo in là. La flessibilità di Bruxelles non cancella infatti la montagna del debito pubblico che — lo ricorda la Banca d’Italia — in maggio ha sfiorato i 2.280 miliardi, in aumento di 8 miliardi rispetto al dato di aprile. E poi — a leggerla bene — la lettera di Bruxelles contiene una chiusura (per noi) impegnativa. Nelle valutazioni della commissione peserà, infatti, in che misura il governo saprà garantire un «adeguato miglioramento della spesa primaria netta alla luce delle previsioni autunnali della Commissione». Come dire che, per avere il via libera sui suoi conti, all’Italia non basterà l’esibizione quasi muscolare di obiettivi numerici di avanzo o minor disavanzo. Ci vorrà qualcosa di più qualitativo, cioè progressi nella qualità dell’aggiustamento fiscale: meno spesa «vera» oggi per ridurre le tasse domani e favorire il ritorno ad una crescita più robusta. Nessuno a Bruxelles nega all’Italia l’importanza dei risultati di riduzione del deficit (dal 3,7 per cento del Pil del 2011 al 2,2 preventivato per il 2017). Ma — obietta la Commissione — il punto e mezzo di riduzione del deficit finora è tutto dovuto all’aumento delle imposte e per nulla alla riduzione della spesa. Le entrate totali dello Stato sono salite dal 45,7 al 47,2 per cento del Pil, mentre la spesa totale è rimasta ferma al 49,5 per cento, con il calo degli interessi sul debito garantito dalla Bce interamente compensato da un aumento di un punto percentuale delle spese vive dello Stato. Con una spesa che non scende, non c’è spazio per ridurre il carico fiscale. Per nessun governo che voglia rimanere in Europa.
Intendiamoci: la mancata riduzione della spesa pubblica — soprattutto di quella per trasferimenti sociali come le pensioni e gli assegni di disoccupazione — ha avuto una ragione d’essere negli anni della crisi. Ma ora le condizioni sono cambiate: l’economia italiana è tornata a crescere all’uno per cento e l’Europa si avvia a crescere del doppio. Con un ambiente economico più favorevole le ragioni per non mettere finalmente un freno alla corsa della spesa diventano più difficili da spiegare. Agli europei e agli italiani.