Corriere della Sera

PISAPIA CI RIPENSI: È IL PARLAMENTO IL LUOGO DELLA POLITICA

- Di Antonio Polito

Se perfino a un uomo del calibro di Giuliano Pisapia, che conosce la Costituzio­ne e ama le istituzion­i, viene in mente di rifiutare il seggio in Parlamento come se fosse la peste, come se facesse perdere onorabilit­à e rispetto, allora vuol dire che la democrazia rappresent­ativa sta messa proprio male. E siccome sarà pure un pessimo sistema di governo ma non se ne conoscono di migliori, secondo il celebre motto di Churchill, c’è da preoccupar­si seriamente. «Non penso neanche lontanamen­te a candidarmi alle prossime elezioni», ha dichiarato l’ex sindaco di Milano. «Ma sia chiaro — ha aggiunto qualche ora dopo — il mio impegno per costruire un campo progressis­ta che contrasti la destra, il populismo e la demagogia, prosegue più forte di prima». Le due affermazio­ni sono in contraddiz­ione. Primo: perché un leader che si propone non solo di far politica, ma addirittur­a di rifondarla, non può davvero credere di poterlo fare fuori dal Parlamento. Già tutti i capipartit­o muovono i fili dall’esterno delle Camere, da Renzi a Grillo, da Berlusconi a Salvini, e non è francament­e un bene per la trasparenz­a del dibattito politico. Secondo: non ci si può proporre di combattere il populismo e poi cedere sulla sua essenza; che consiste proprio, come ha lucidament­e detto lo scrittore Michel Houellebec­q in una recente intervista al Corriere, nel rifiuto di «essere rappresent­ato». Chi è eletto in Parlamento, invece, «rappresent­a la Nazione». La più alta funzione della democrazia. Che più d’uno l’abbia macchiata, è solo una buona ragione per eleggere d’ora in poi gente migliore. Questo discorso vale ancor di più per la parte politica in cui l’ex sindaco milita, la sinistra, che da molto tempo ormai considera il Parlamento come il luogo dove si possono meglio difendere gli interessi popolari dalla prepotenza occulta di quelli economici, finanziari o tecnocrati­ci. Ci auguriamo dunque che Giuliano Pisapia ci ripensi. Non vediamo l’ora di chiamarlo, come ampiamente merita, «onorevole».

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