Storia del mio fiume, che si è portato via tutto
io padre proviene da un piccolo villaggio dell’India che, una volta, si trovava lungo il corso del fiume Wardha, in uno dei distretti più caldi della regione del Vidarbha. C’era un tempio sulla riva ed i miei primi ricordi di un corso d’acqua sono legati a quel fiume che attraversava il villaggio. Durante le vacanze giocavo nelle sue acque con i bambini del villaggio mentre le donne si recavano al fiume per fare il bucato e sciacquare gli utensili da cucina. I contadini lavavano il bestiame sulla riva opposta. Il fiume forniva l’acqua per l’irrigazione dei terreni circostanti.
Ancora oggi posso chiudere gli occhi e vedermi nelle strade con gli altri bimbi. Il maestro di paese ci rimbrottava dicendoci di smetterla di correre come animali. Le nonne ci richiamavano, tentando di convincerci a stare al riparo dalla canicola, che nei pomeriggi estivi raggiungeva i 45 gradi. Mi ricordo come ogni casa avesse, letteralmente, stanze ingombre di manghi, in estate, e come mia nonna tenesse le mucche nel cortile di casa. Sento ancora l’odore muschiato e ligneo del «chulha», una specie di braciere fatto con mattoni cementati dallo sterco di vacca essiccato. Anche i muri della casa erano ripassati con lo sterco fresco, per tenere lontane le zanzare. Oggi il solo pensiero di qualcuno che se ne vada a raccogliere quel materiale per spalmarlo sui muri o per usarlo come combustibile in cucina mi fa rabbrividire, tuttavia, quelli erano gli anni e quelle le abitudini. Lo sterco era un bene essenziale, come adesso lo è il gas. Molto meno pericoloso ed assai più conveniente, se la devo dire tutta. Non c’era bisogno di avere una tessera annonaria, una carta d’identità, un codice fiscale o una carta di credito. Non c’era bisogno di spendere cifre esorbitanti per una bombola di gpl o di stare ad aspettare in una coda infinita.
Il cibo era qualcosa che oggi posso solo provare ad immaginare. Mi viene l’acquolina in bocca al pensiero dei semplici piatti che mia nonna paterna e mia zia scodellavano. Un piatto di «poli-bhaji» (un pane indiano schiacciato, accompagnato da una verdura in umido) mi sembra un miraggio che svanisce fra le mani quando provo a stringerlo. I ricordi possono essersi sbiaditi, ma i sapori rimangono. Il latte fresco, i manghi gialli ed arancioni, pronti per essere divorati da piccole bocche ingorde, i manghi verdi o «kairi», lasciati stesi ad asciugare nel cortile per poi trasformarli in sottaceti speziati. Mi sorprendo a desiderare che anche mia figlia possa assaporare queste esperienze. Trasmetterle quel modo di vivere, quell’ambiente naturale, quel cibo.
Mia nonna mi costringeva a finire i pasti o mi correva appresso per farmi bere il latte fresco della sua mucca preferita, Ganga. Ero la figlia maggiore del suo figlio primogenito, un figlio che lei adorava, amava e rispettava. Ero la «Jyoti» (luce), il nomignolo che mio nonno mi aveva dato poiché ero la luce della famiglia.
Ripensandoci, le sere erano i momenti migliori della giornata. Alle sette tutto il villaggio si illuminava e mia nonna e mia zia cominciavano a cucinare. Mia zia si lamentava con il fratello più giovane, rimproverandolo di non voler sostituire il braciere a legna, fatto di mattoni, con una cucina gas. Ricordo le discussioni infinite, che inesorabilmente terminavano con la zia che accusava suo fratello di voler comprare la nuova cucina solo quando si sarebbe sposato e sua moglie avrebbe dovuto cucinare. In definitiva, zia aveva ragione: la nuova cucina fu installata poco prima delle nozze dello zio.
Approntata la cena, zio e nonno erano soliti mangiare per primi in sala da pranzo. Le donne avrebbero cenato dopo, in cucina, com’era allora abitudine. Benché fossi una ragazza, io avevo il privilegio di mangiare con gli uomini, essendo «Jyoti di Dada». Dada era l’appellativo di mio padre, in quanto primogenito della famiglia.
Non c’era modo, per me, di rifiutare quel privilegio e mangiare con le donne. Mia nonna non lo avrebbe mai permesso. Presto, tuttavia, imparai un trucco: quando volevo cenare con le donne non dovevo far altro che limitarmi a mangiare un «poli» con mio nonno e mio zio e poi consumare il resto della cena con le donne.
La stalla delle mucche di mia nonna era situata sul lato opposto del cortile, rispetto al soggiorno. Ogni sera si consumava il rito dell’ultima passeggiata di Ganga, mentre io me ne stavo con gli amici nel cortile e mio nonno riceveva i visitatori in soggiorno, commentando le notizie del giorno, prima di ritirarsi a dormire.
Il villaggio, il fiume, il tempio lungo la riva e la scuola a fianco del tempio… non rimane più nulla di quella vita, se non i ricordi. Le fattorie ed i contadini sono quasi del tutto scomparsi, al loro posto rimane solo qualche rudere. Le inondazioni del 1991 si portarono via tutto. Il fiume, una volta la vita del villaggio, ne divenne il distruttore e nel suo risveglio rancoroso, portò con se le risa, le feste, l’idealismo delle persone e le loro vite. Duemila esseri umani scomparvero quel giorno ed altre migliaia videro la loro esistenza stravolta.
Gente che era felice, pur non avendo molto, si ritrovò senzatetto e, tuttavia, il ricordo di quel villaggio è ancora intatto nel mio cuore: i bambini che giocano e ridono, le donne che siedono e fanno il bucato, i lavori per erigere la scuola, i fedeli che salgono la scalinata del tempio a tutte le ore. Posso ancora sentire le campane risuonare.
Spariti i manghi, sparito il cibo casalingo ed anche Ganga è scomparsa da tanto tempo. La vita è svanita, portata via da un fiume iroso
Il villaggio è stato spostato qualche miglio più in collina. I muri di fango, sormontati da tetti di canne, che ne costituivano la maggior parte degli edifici, furono sostituiti dal cemento e dall’eternit. Le persone si sono estraniate l’una dall’altra ed il sentimento di essere una comunità è perso. Mio nonno è morto, mia nonna mi prepara ancora manicaretti ogni volta che la vado a trovare, mio zio si è sposato ed ha tre figli: il giorno della disgrazia rischiò di veder annegati sua moglie e due dei bambini. Mia zia si è sposata ed è andata a vivere a Bombay, ora Mumbai.
Il fiume è adesso ridotto ad un piccolo rio e scorre lontano da dove il villaggio è stato ricostruito. Sono stata in questo nuovo villaggio qualche tempo fa. Mio padre ha comprato un aranceto e da lì ho potuto vedere un corso d’acqua semi asciutto. Mi ha raccontato che quello è il Fiume. Sono rimasta lì a fissarlo a lungo, chiedendogli se tutta la distruzione che causò gli avesse dato qualche soddisfazione. Se ne fosse valsa la pena di finire in quel modo, ridotto ad un’ombra impalpabile del fiume maestoso ed amato che una volta fu.
Le case sono state spostate, i muri di fango sostituiti dal cemento e dall’eternit