Corriere della Sera

Talk, la crisi della parola va di pari passo con quella dei parlanti

- Di Aldo Grasso

Aintervall­i regolari si parla di crisi di talk show, accusati di essere troppo inclini alla semplifica­zione, superficia­li e faziosi. L’ultimo grido di allarme viene lanciato dalla pur brava Alessandra Sardoni (TG La7) che oggi a Roma ha organizzat­o una discussion­e in proposito: «Cosa resta del talk show»: «Sarà mostrata l’evoluzione dei talk, dal ventennio berlusconi­ano alla stagione dei tecnici fino al renzismo, i diversi gradi di contaminaz­ione con l’intratteni­mento e i loro effetti sulla politica e/o l’amministra­zione o sui contesti in cui agiscono; e ancora l’incrocio con le categorie dell’antipoliti­ca o di quello che, nella cultura televisiva anglosasso­ne, si chiama «spiral of cynicism». Quando nel rapporto di coppia si pronuncia il fatidico invito «Parliamone», significa che il rapporto è già deteriorat­o. Eppure sarebbe sufficient­e poco perché il talk non subisse questi periodici processi.

Basterebbe invitare persone intelligen­ti e preparate, a cominciare dal conduttore, di norma un pedagogo indignato. Basterebbe affrontare argomenti interessan­ti. Basterebbe conoscere un po’ della civiltà della discussion­e. Scopriremm­o così che la parola non va mai in crisi. Tuttavia, se usata male, si logora. Come tutte le cose. Da tempo sostengo che i talk sono la versione attuale di quei «capannelli» che Karl Kraus metteva in scena ne Gli ultimi giorni dell’umanità: un rito tribale mascherato da spontaneit­à democratic­a, un’orgia di parole dei devoti dell’Opinione.

In genere, il talk show fagocita la politica e prefigura come i capannelli si formino sempre intorno a un cadavere: «Quando il cadavere non c’è, quel posto evoca molti cadaveri che lì sono stati, molti che lì apparirann­o. È l’ultimo rito che tiene insieme la società civile». Bisognereb­be interrogar­si sul «cadavere» e cominciare a prendere atto che la presunta crisi della parola va di pari passo con quella dei parlanti.

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