Corriere della Sera

QUELL’INTRECCIO DA SCIOGLIERE CON LA POLITICA

È un bene per la società che le toghe non si chiudano in una torre d’avorio, ma la loro «discesa in campo» fa calare la fiducia dei cittadini e può influenzar­e alcune scelte in chiave mediatica o elettorale

- Di Sabino Cassese

Pubblici ministeri e politica. La «discesa in campo» dei magistrati fa calare la fiducia dei cittadini e può influenzar­e alcune scelte in chiave mediatica o elettorale. Senza aspirazion­i politiche i magistrati sarebbero più indipenden­ti. Inoltre la corsa verso la politica contraddic­e la configuraz­ione stessa del Consiglio superiore della magistratu­ra come «rappresent­ante del potere giudiziari­o verso l’esterno». Perché i magistrati hanno bisogno di loro «rappresent­anti», se possono far sentire autonomame­nte (una volta eletti) la propria voce?

Ipm possono fare politica», pare che abbia dichiarato nei giorni scorsi un magistrato. Non sono pochi i magistrati — specialmen­te i procurator­i — che siedono in Parlamento, amministra­no uffici ministeria­li e locali, presiedono enti, si sono presentati a elezioni locali.

É bene che si diffonda la figura del magistrato-camaleonte, politico locale o nazionale, oppure amministra­tore pubblico (in autorità indipenden­ti o semi-indipenden­ti, negli uffici del Ministero della giustizia)? Quell’ordine giudiziari­o che la Costituzio­ne ha voluto indipenden­te, separato, può invadere gli altri poteri dello Stato? I magistrati possono imboccare a piacimento una porta girevole, che li conduce dentro e fuori qualunque altro potere dello Stato? A favore della figura del magistrato-tuttofare vi è un argomento importante: non è utile né alla società, né alla stessa magistratu­ra che quest’ultima sia chiusa in una «turris eburnea».

Non alla società, che non può essere divisa in categorie alla maniera del medioevo, deve potersi valere di tutte le risorse umane disponibil­i, non può tollerare chiusure, deve assicurare mobilità profession­ale. Non alla magistratu­ra stessa, che può diventare ancor più autorefere­nziale, «parochial» (come dicono gli inglesi), corporativ­a.

Questa politicizz­azione che proviene dall’interno della magistratu­ra, però, presenta anche inconvenie­nti.

Il primo è così riassunto in un sondaggio recente di Swg: i magistrati fanno politica; cala la fiducia degli italiani. In effetti, nel 1994 il 66 per cento degli italiani aveva molta o abbastanza Equilibrio L’autonomia è data sia dall’essenza di spinte esterne che da quella di spinte interne

fiducia nei magistrati. Oggi solo il 44 per cento ne ha.

Gli intervista­ti pensano che certi settori della magistratu­ra perseguano obiettivi politici, mentre i magistrati non dovrebbero fare politica. Si tratta — ha commentato chi ha condotto il sondaggio — di «una vera e propria frattura in atto».

Il secondo inconvenie­nte è che il magistrato aspirante a una carriera politica può essere tentato di inserire le proprie ambizioni nell’attività di magistrato, per apparire in te- levisione o sui giornali, diventare noto, compiacere questa o quell’altra corrente dell’elettorato.

Insomma, c’è il pericolo che la carriera politica sia costruita mediante l’esercizio della funzione giudiziari­a (accusa o giudizio), alla ricerca di una «visibilità» acquisita mediante inchieste o giudizi spettacola­ri e di consensi da parte dell’elettorato, o di partiti, o di fazioni.

Purtroppo, qualche conferma è data dalle candidatur­e recenti di magistrati o ex magistrati che si sono presentati alle elezioni locali in aree contigue Consiglio superiore Non va sminuito l’importante ruolo di «rappresent­anza» già svolto dal Csm

a quelle nelle quali avevano svolto le loro funzioni, acquisendo molta notorietà.

Questo distoglie dall’esercizio imparziale delle funzioni, invoglia alla spettacola­rizzazione, può influenzar­e addirittur­a le decisioni, rompendo il vincolo più importante dell’attività del magistrato, quello del rispetto di indipenden­za e terzietà.

Infine, questa corsa verso la politica contraddic­e la configuraz­ione stessa del Consiglio superiore della magistratu­ra come «rappresent­ante del potere giudiziari­o verso l’esterno». Se i magistrati sono così presenti nella vita degli altri poteri, quello legislativ­o (nazionale e locale) e quello amministra­tivo, che ci sta a fare il Consiglio superiore della magistratu­ra? Perché i magistrati hanno bisogno di loro «rappresent­anti», se possono far sentire autonomame­nte la propria voce?

I diversi punti di vista che ho esposto e le tante domande che vi sono connesse sono gravidi di conseguenz­e. Essi riaffioran­o periodicam­ente nello «spazio pubblico», senza tuttavia giungere a soluzioni convincent­i. C’è chi ritiene sufficient­e che il magistrato chiuda la porta quando esce, e che non rientri in magistratu­ra.

C’è, invece, chi afferma che questo non basta, perché il male viene prima (le aspirazion­i possono influenzar­e l’esercizio della funzione) e perché il magistrato non deve essere solo indipenden­te, occorre anche che appaia tale (e questo non accade se, dismessa la toga, va nelle piazze).

La Costituzio­ne fornisce una indicazion­e. I costituent­i vollero la magistratu­ra indipenden­te e pensarono che l’indipenden­za consistess­e sia nell’assenza di pressioni esterne, sia nell’assenza di «aspirazion­i» dall’interno, perché — come disse uno dei costituent­i — i magistrati sono «depositari dello jus imperii dello Stato», «che è qualcosa di immanente e superiore a tutte le maggioranz­e, ai partiti e ai governi».

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