La nostra piccola Calais
La colpa maggiore è della Francia: aperta solo a parole. Ma Ventimiglia è un nostro problema: non possiamo lasciarla sola.
La colazione abbondante è un segno di resa. Alla Caritas hanno fatta una scelta obbligata. Mancano le risorse per la distribuzione degli altri pasti. Addio al pranzo e alla cena, riempirsi la pancia al mattino e poi ognuno per sé. Certo, l’Europa dovrebbe essere unita nell’aiuto all’Italia. Ma nell’attesa l’Italia dovrebbe fare qualcosa di concreto per Ventimiglia, la sua piccola Calais, una città di confine lasciata sola, in compagnia soltanto di vaghe promesse, a fronteggiare un dramma epocale.
Solo nel 2017 in questa estrema periferia di ponente sono passati e si sono fermati 29 mila migranti. La presenza media dell’ultimo mese è di mille persone, sparsi per il centro gestito dalla diocesi, il campo della Croce rossa, il greto del fiume Roja, le strade intorno alla stazione. Aumentano i nuovi arrivi e diminuiscono i volontari disposti ad occuparsi dell’accoglienza. Sono morti già dodici migranti dall’inizio dell’anno. Alcuni sono stati travolti dai camion, altri dai treni, oppure folgorati dal pantografo dei vagoni ai quali erano aggrappati, oppure precipitati nei crepacci delle montagne, mentre cercavano di entrare in Francia. Un Paese che non li vuole, che rispedisce indietro anche i minori in barba a qualunque convenzione internazionale. Ci provano in ogni modo, dall’alto e dal basso, anche dal mare, tante strade diverse alle quali è stato affibbiato un solo nome, la rout de la mort.
La vita quotidiana di una città votata al turismo balneare è stata stravolta, senza alcuna prospettiva immediata di ritorno a un simulacro di normalità. Poco importa che la colpa maggiore sia della Francia, aperta a parole, nei fatti pronta a sguinzagliare ogni sera i cani contro i migranti sulle alture di Mentone. Ventimiglia è un nostro problema. Il suo microcosmo riproduce in pieno l’assenza di una visione comune tra ognuno dei soggetti coinvolti. I migranti protestano per le condizioni nelle quali vivono e per le loro speranze negate. Gli abitanti inscenano sempre più Fronteggia un dramma epocale con le sue sole forze, e manca una visione comune tra i soggetti coinvolti spesso cortei di protesta contro la presenza dei disgraziati ospiti. I volontari di alcune organizzazioni non governative da mesi si improvvisano passeur e organizzano spedizioni notturne per eludere la sorveglianza dei gendarmi. In questo modo, al netto delle buone intenzioni, diventano anch’essi calamita, richiamando sempre più clandestini. Il vescovo predica le porte aperte a tutti e la creazione di nuove strutture di accoglienza. Le istituzioni locali sono isolate. Il giovane sindaco democratico Enrico Ioculano è l’unica figura chiamata al difficile compito di coniugare solidarietà e tutela degli interessi di una comunità. Una missione quasi impossibile. Quando fotocopia l’ordinanza di molte città del nord che vieta di dare da mangiare per strada, viene dipinto sui social network come una specie di nazista e costretto a ritirarla, facendo imbestialire i suoi compaesani. Quando dopo mesi fa sgomberare l’accampamento sul fiume Roja, in condizioni igieniche terribili, lo accusano di essere il responsabile delle cacce all’uomo notturne. La curia lo critica, i centri sociali gli manifestano contro una volta alla settimana, ignorando per un riflesso condizionato di zelo umanitario gli sforzi dell’amministrazione per una accoglienza pure superiore alle proprie forze. L’emergenza continua di Ventimiglia mette sotto i nostri occhi la difficoltà di trovare un punto d’incontro che tuteli le esigenze di migranti e cittadini, entrambi a modo loro vittime di questa tragedia. E così rende evidenti i danni prodotti dalle parti in causa che forti della certezza assoluta di essere nel giusto si schierano da una parte sola.
Città di confine