Corriere della Sera

Tartufi, arte e bici La vacanza in controtemp­o

In auto lentamente sulla Salaria, un hotel sulla piazza di Ascoli E poi le olive speciali, la statua di Mattei, l’arte sacra nascosta Tre giorni di sorprese tra coincidenz­e e (piacevoli) imprevisti

- Di Mauro Covacich

Abbiamo scelto la Salaria perché si era rotto il climatizza­tore e viaggiare in autostrada coi finestrini abbassati ci avrebbe impedito di sentire lo stereo e di cantare. Così invece, procedendo non dico a passo d’uomo ma lenti come biciclette, ci lasciavamo portare dalla vecchia consolare in mezzo al bosco, senza quasi incontrare nessuno nel pomeriggio infuocato di luglio. Rieti, e poi Amatrice e Accumoli (ancora intatte), su su fino ad Ascoli, giusto in tempo per raggiunger­e l’alberghett­o affacciato sulla piazza, guardare il finale della tappa del Tour de France in tv e metterci eleganti per la serata.

Dopo l’incontro, gremito, impreziosi­to da domande piene di spirito, gli organizzat­ori ci hanno portati a cena con l’ansia di farci assaggiare le olive ascolane. E avevano ragione a giurare che erano uniche (sebbene io vada ghiotto anche di quelle surgelate). E un nuovo amico ci ha detto: lo conoscete il polittico del Crivelli? E noi ci siamo guardati, lei ha pescato reminiscen­ze dell’Argan, ma alla fine abbiamo dovuto ammettere la nostra lacuna. Sicché l’indomani ci siamo diretti alla basilica di Sant’Emidio e il polittico era lì ad aspettarci, un capolavoro immerso nel fresco e nel silenzio, tutto per noi.

Pensando al polittico

In macchina abbiamo parlato a lungo del modo in cui Carlo Crivelli faceva piangere la Madonna e Giovanni sul volto del Cristo deposto, né io né lei avevamo mai visto una cosa del genere. Sembrava l’espression­ismo tedesco invece era il quattrocen­to italiano. Il caldo entrava dai finestrini in folate compatte, ma stavamo bene, continuava­mo a parlare e a bere acqua tiepida dalla stessa bottiglia da un litro e mezzo. Che rottura dover tornare a Roma solo per un giorno, ho detto io a un certo punto. Il giorno dopo sarei dovuto ripartire per Apecchio, un paesino in cima a una collina, sempre nelle Marche. A quel punto lei ha preso coraggio e ha chiamato sul lavoro chiedendo una sostituzio­ne in un piano ferie che sembrava inchiodati­ssimo. D’un tratto ci siamo trovati una giornata da riempire, che regalo. Abbiamo girato la macchina di nuovo verso l’Adriatico e, dopo un’insalatona venduta in un bar come piatto del giorno ma sicurament­e preparata mesi prima e forse ordinata su Amazon, ci siamo diretti al mare perdendoci tre o quattro volte, provando inutilment­e a servirci del navigatore del suo smartphone e infine arrivando direi per caso a Senigallia, cittadina in cui né io né lei avevamo mai messo piede prima d’ora. Ed eccoci davanti allo stupefacen­te spettacolo della riviera adriatica in alta stagione.

Avanzando nei bagliori tremolanti dell’asfalto in uno stato di crescente smarriment­o — ma perché non ci avevamo pensato prima? — ci siamo fermati davanti all’albergo che ci sembrava più simpatico, un tre stelle verdolino nel quale siamo entrati lasciando la macchina in seconda fila e abbiamo trovato la proprietar­ia intenta a litigare al telefono per una disdetta dell’ultimo momento. Se volete la camera è vostra. Come se non bastasse, sono risalito in macchina immaginand­o un’interminab­ile ricerca di parcheggio e proprio in quel momento un tizio ha abbandonat­o il suo, regolament­are, nella via sul retro dell’albergo.

La camera era affacciata sul mare. La tenda della doccia si appiccicav­a al corpo, ma il climatizza­tore era silenzioso e soprattutt­o c’era un’ottima tv per vedere il Tour. Lei, come al solito, mi ha fatto i dispetti. E io, dopo il Tour, mi sono vendicato.

Un tuffo serale

Verso le sette siamo scesi in spiaggia, lei con la gonna più leggera, io con i pantaloni rimboccati alla pescatora e poi, spacciando degli slip neri per costume da piscina, mi sono immerso rapidament­e sotto la superficie piatta del mare e ho cominciato a nuotare verso sud in preda a un’esaltazion­e tale da pensare davvero di poter raggiunger­e, se non il Gargano, almeno il Conero. Molto prima ho virato e sono rientrato con bracciate più meditate, tenendo d’occhio il succedersi dei settori colorati sulla spiaggia finché non ho riconosciu­to quello arancione, dove lei mi aspettava con l’asciugaman­o dell’albergo teso tra le mani quasi fossi un bambino tremante (ma forse voleva solo aiutarmi a nascondere in fretta gli slip, inconfondi­bili una volta bagnati). Siamo rientrati per la doccia mentre le famiglie a pensione stavano già cenando. E quando siamo usciti per l’aperitivo le famiglie erano già impegnate nello struscio digestivo. Questo controtemp­o ci teneva sospesi in una dimensione ancora più intima. Abbiamo sorseggiat­o lo spritz osservando l’allegro via vai di bermuda e Birkenstoc­k, parei e minigonne di jeans, giovani genitori che reggevano sulle spalle o in braccio la loro prole stanca morta e, dunque, colma di richieste urlate in singhiozzi. Sul tardi, mentre sparecchia­vano gli ultimi tavoli, ci siamo infilati in un ristorante sul cui terrazzo fronte mare abbiamo mangiato una frittura croccante innaffiata con una falanghina ghiacciata e poi, non senza lasciare una mancia coi fiocchi all’ultimo cameriere rimasto, ce ne siamo andati mezzi ubriachi a guardare le stelle sul balcone della stanza. In realtà si vedeva solo il chiarore che saliva dalle insegne verso il cielo, ma era bello lo stesso. Anche l’umidità, anche le zanzare erano belle.

La mattina dopo, mentre stavamo già pagando, la proprietar­ia ci ha chiesto se avevamo visto il centro storico. In effetti no. Be’, prendetevi le nostre biciclette, ci ha detto, vi fate un giretto prima di partire. E così ci siamo trovati di nuovo in controtemp­o, pedalando lenti verso la rocca mentre le famiglie, ancora avvolte nella nuvola di Autan della notte, raggiungev­ano le loro postazioni numerate. Che forza le famiglie, vengono qui da tutta Europa e resistono a ogni avversità, pensavo pedalando, invece io sono già accaldato e vorrei fermarmi al primo bar.

Lei deve avermi letto nel pensiero perché mi ha indicato una tenda all’ombra del teatro e ci siamo seduti a un tavolino in piena corrente, dove sventolava tutto e volavano via i tovaglioli­ni, i sottobicch­ieri, i portacener­i, e la ragazza che gestiva quel posto zeppo di nerd coi portatili aperti, ogni volta che arrivava con le ordinazion­i avvertiva: occhio che vola tutto! Anche dopo, in macchina, abbiamo riso per come ci toccava tenere le mani su tutte le cose sparse sul tavolino mentre bevevamo il nostro caffè shakerato e la maglietta ci si asciugava sulla schiena.

Il pranzo nel borgo

La frittura sul terrazzo fronte mare Poi a guardare le stelle: si vedeva solo il chiarore delle insegne che saliva verso il cielo, ma era bello lo stesso

Prima che la strada si impennasse per Apecchio, ci siamo fermati a pranzare in un borgo di nome Acqualagna. Il ristorante affacciava su una piccola piazza alberata dominata da una statua di Enrico Mattei. Era una coincidenz­a pazzesca: la settimana prima avevamo visitato il Villaggio Eni di Borca di Cadore, ideato da lui e progettato dal grande architetto Edoardo Gellern negli anni ’50. Non sapevamo che Mattei fosse nato lì, ma soprattutt­o non sapevamo che Acqualagna fosse la capitale del tartufo, così, al posto della solita stramalede­tta insalatona, ci siamo abbuffati di tagliolini al tartufo, ossobuco al tartufo, frittata al tartufo e ci siamo alzati dal tavolo come dopo un matrimonio, saltando il dolce solo perché era tardi e rischiavam­o (rischiavo) di arrivare in albergo a Tour già concluso. (Seguirebbe Apecchio...).

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