Un Sultano che colpisce alla cieca
Nemmeno nel giorno più solenne, a un anno esatto dagli avvenimenti del 15 luglio scorso, giorno di commemorazione che il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha voluto dedicare alle 250 vittime della sommossa, si sono fermati gli arresti e le epurazioni di altre migliaia di dipendenti pubblici, accusati d’essere traditori se non peggio.
L’unione nazionale, invocata dal neo sultano, e trasformata in slogan, in realtà di unione non ha nulla. Le opposizioni turche non sono state invitate. Invece di una mano tesa, che potrebbe ridargli un minimo di credibilità democratica e restituire al Paese un clima conciliatorio, Erdogan continua a colpire, quasi alla cieca. La violenza verbale di cui ormai sono permeati i discorsi del presidente ha superato tutti i possibili limiti: scatenando la furia dei suoi sostenitori più estremisti, e provocando il crescente risentimento di tutti gli esclusi. Erdogan avrebbe voluto che tutto il mondo si raccogliesse attorno alla Turchia. I Paesi che chiedono maggior rispetto dei diritti umani, come l’Unione Europea, sono a suo avviso fiancheggiatori dei terroristi. Anzi, il leader sostiene che doveva essere Ankara a ottenere il Nobel per la pace, non la Ue. E fiancheggiatori, secondo Erdogan, sono anche gli Stati Uniti, che si rifiutano di consegnare ad Ankara il «più grande terrorista del mondo», cioè il suo ex amico, il predicatore Fetullah Gülen. Le accuse, in verità, non stanno in piedi. Ma chiunque dubita delle idee del sultano è un temibile nemico quando va bene; se va male è un terrorista. Figuriamoci i giornalisti, che riempiono le carceri o sono minacciati e intimiditi.
La deriva dittatoriale di Erdogan ha raggiunto livelli pericolosissimi. Noi europei abbiamo però una grave colpa. Se avessimo accettato il Paese nella Ue, probabilmente avremmo impedito, con le nostre istituzioni, l’avanzata degli estremisti e l’arroganza del regime. Invece, in Turchia si disegna uno scenario assai opaco, quasi fosco.