«Femminicidi, pm in prima linea ma non basta»
Carmen Santoro: una denuncia per stalking non sempre serve a prevenire una morte
Carmen Santoro, 47 anni, pubblico ministero della Procura di Bergamo. Dal 2003 ha a che fare con il settore che ancora oggi negli uffici giudiziari si chiama «fasce deboli»: donne e bambini.
Dottoressa Santoro, quattro donne uccise e una in fin di vita in poche ore. Rischiamo l’assuefazione all’idea dei continui femminicidi?
«Non ne sono molto convinta. C’è ogni volta, giustamente, una grandissima attenzione sul tema. E poi le posso dire una cosa che non segue la massa? Non trovo corretto il termine femminicidio perché fa una distinzione dove distinzione non c’è, almeno non dal punto di vista della gravità del reato. È un omicidio, cioè un fatto sempre e comunque gravissimo. Punto».
Spesso le vittime di uomini violenti avevano denunciato, magari più volte. Cos’è che non funziona se nemmeno le denunce servono a evitare il peggio?
«Se me lo chiede dal punto di vista della magistratura le dico che secondo me i magistrati fanno tutto quello che possono fare. Ma proprio tutto. Ovviamente dobbiamo tener conto degli strumenti e dei passi che la legge ci consente».
Bisogna coinvolgere anche le associazioni che si occupano degli uomini violenti: è lì il cuore del problema
Sta dicendo che le leggi attuali non sono sufficienti?
«No, al contrario. Cosa dovremmo prevedere di più? Solo che troppo spesso si pensa che una semplice denuncia in un commissariato sia sufficiente per arrestare uno stalker, per esempio. E non è così. Dobbiamo capire se ci sono le condizioni giuridiche per contestare quel reato. Un conto è seguire un caso con tutte le sfumature che può presentare, un conto è leggerlo con il senno del poi dal titolo di un giornale. Quando c’è un’urgenza ne teniamo sempre conto, mi creda, siamo tutti in prima linea. Ma non abbiamo la sfera magica per leggere il futuro e molte volte l’omicidio avviene senza nessun “fatto sentinella” che lo preceda o senza che prima sia stato possibile — intendo dire tecnicamente e giuridicamente — rendere inoffensivo chi lo commette».
Non c’è niente che si possa fare meglio e di più, quindi?
«Beh, no. Si può fare sicuramente di più e meglio nella connessione e nell’utilizzo delle reti sul territorio. Far diventare più forti e operativi i legami fra forze dell’ordine, associazioni antiviolenza, servizi sociali, ospedali, centri di accoglienza. E secondo me sarebbe sensato coinvolgere anche le associazioni che si occupano dei carnefici, non solo delle vittime perché, com’è noto, è lì che sta il nocciolo del problema. Una rete che funziona può risolvere un problema ben prima che diventi un fascicolo penale».
Che cosa la colpisce di più davanti alle storie che le donne le raccontano?
«Il fatto che soffrano e che però spesso non ce la fanno a riconoscere di aver investito i sentimenti nella persona sbagliata. Non è facile, serve un lavoro interiore molto duro».