La città merletto e l’assedio delle masse
Venezia è un merletto di pietra sospeso sull’acqua, un broccato di canali, calli e campielli, una signora delicata, un vecchio veliero che esige un comando saldo, una ciurma disciplinata. Come ogni anno anche ieri, davanti alla chiesa del Redentore progettata dal Palladio, si commemorava la fine della peste che nel 1575 ridusse di un terzo la popolazione della Serenissima. Nell’era della trivialità — la nostra — la Morte nera ha preso forme diverse, meno tragiche, certo, ma spesso, involontariamente, tragicomiche: il pigia-pigia minaccia di travolgerci. La prefettura e le autorità cittadine hanno preso misure eccezionali: cartelli, transenne, sorveglianza capillare, agenti dappertutto, ma la stupidità non si fa recingere, è imprevedibile, tentacolare, senza confine. A Venezia c’è un detto: «L’acqua non gà ossi». L’acqua non ha le ossa, s’insinua negli anfratti, nelle crepe, scivola qua e là, sbuca dove vuole, travolge a suo piacere. A una folla maleducata e scomposta, per rompere gli argini e straripare, basta un grido, un petardo, un allarme dato per gioco da un gruppo di adolescenti un po’ bevuti. Il fuggi-fuggi può generare catastrofi. A Torino è costato una vittima e un migliaio di feriti. Quando, nel 1912, il Titanic affondò, Conrad scrisse un commento memorabile: «Non ci si poteva aspettare niente di buono da una nave con più camerieri che marinai». Qualche secolo fa il Consiglio dei Dieci decretò di deviare il corso dei fiumi che minacciavano di riempire di detriti la laguna, oggi forse bisognerebbe imbrigliare le masse umane che convergono su questo vecchio, nobile veliero, senza conoscere le dure, semplici abitudini che ne hanno governato la navigazione millenaria. Da veneziano non mi resta che contare sui leoni alati: chissà che i felini di San Marco non lascino i capitelli, i muri e le colonne, per avventarsi sulla folla e farne la propria vivanda.