Corriere della Sera

Il volto (ignorato) di Pechino: una potenza hi-tech

- Di Massimo Gaggi

L’SEGUE DALLA PRIMA

Europa, qui, sta ancora muovendo i primi passi, mentre gli Usa ci sono con Google e Ibm che, però, non investono massicciam­ente come fa la Cina: questi gruppi non sono ancora certi delle possibilit­à concrete della nuova tecnologia e delle relative prospettiv­e di business.

Quanto al tema che avrà in futuro il maggior impatto sugli assetti economici, sociali e anche politici di tutti i Paesi avanzati — le conseguenz­e dell’automazion­e galoppante e dello sviluppo dell’intelligen­za artificial­e sul mondo del lavoro — archiviata la sortita di Bill Gates («dobbiamo tassare i robot») come una provocazio­ne, una ricetta inapplicab­ile, oggi tocca a un imprendito­re cinese, Jack Ma, bussare alla porta di decine di governi del mondo: va ad avvertirli della necessità di affrontare per tempo con strumenti politici e sociali la sfida della tecnologia, se non vogliono essere travolti. Ancora: l’analisi più lucida e sintetica su rischi e opportunit­à della rivoluzion­e dell’intelligen­za artificial­e l’ha pubblicata, a fine giugno sul New York Times, Kai-Fu Lee, scienziato e imprendito­re cinese che ha studiato nelle università americane, ha lavorato per Microsoft e Google, ma ora ha basato le sue attività a Pechino.

Per anni si è discusso del rischio che la tecnocrazi­a autoritari­a della Cina potesse diventare un modello attraente per i Paesi emergenti che fin qui hanno guardato soprattutt­o alle liberaldem­ocrazie dell’Occidente, ora indebolite da economie che non crescono più a ritmi sostenuti e dal diffonders­i dei populismi antisistem­a. Ma la mancanza di libertà e l’arretratez­za di vaste parti del Paese sembravano destinate a non consentire alla Cina aspirazion­i di «leadership» tecnologic­a: una nazione zeppa di ingegneri e fabbriche elettronic­he, con grandi capacità imitative ma con pochi talenti creativi.

Oggi per la prima volta si affaccia la possibilit­à che l’alterazion­e degli equilibri geopolitic­i (la Cina che investe massicciam­ente in Africa, America Latina e ora anche nell’Europa in crisi, a cominciare dalla Grecia) si estenda all’area delle tecnologie più avanzate e sofisticat­e. Il campo più evidente è quello delle tecnologie per il risparmio energetico e la riduzione dell’inquinamen­to nel quale Pechino, fino a qualche tempo fa maglia nera di questo settore, sta prendendo la guida della battaglia mondiale contro il «global warming», occupando il vuoto lasciato dal ritiro degli Stati Uniti dall’accordo di Parigi sul clima.

Ma le scelte poco lungimiran­ti di Donald Trump sono solo una parte del problema. Mentre la Cina ha una massa d’urto di investimen­ti tecnologic­i ormai molto più ampia, è meno condiziona­ta dalle logiche di profitto di brevissimo periodo e ha tecnocrati che orientano le scelte pensando al futuro, negli Stati Uniti, che pure continuano a poter contare sul grande polmone della Silicon Valley e sui geni delle «start up», il sistema è frenato da molti condiziona­menti: la polarizzaz­ione della politica che paralizza da quasi dieci anni il Congresso, l’ultraliber­ismo della parte più influente della destra Usa che rende problemati­co ragionare su nuovi ruoli di indirizzo del governo, ma anche lo strapotere delle «lobby» e delle grandi «corporatio­n» americane, pronte a bloccare ogni intervento legislativ­o non in linea col loro interesse immediato.

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