L’odioso abuso dei permessi per assistere i parenti malati
Ricorre in questi giorni il secondo anniversario di un episodio che tre milioni di abitanti di Roma non possono dimenticare. La città venne paralizzata da un cosiddetto «sciopero bianco» dell’Atac per un mese, nel caldo torrido del luglio 2015. I conducenti della società municipale di trasporto pubblico presero a guidare i mezzi con una lentezza esasperante, senza perdere un’ora di lavoro in busta paga. Protestavano perché veniva chiesto loro di timbrare il cartellino all’ingresso e all’uscita di ogni turno. Fu un insulto a milioni di disoccupati d’Italia. E oggi che infuriano le polemiche per la donna trascinata nel metrò di Roma mentre il macchinista mangiava in cabina, quell’episodio torna attuale perché ricorda in fondo la stessa realtà: in molte parti d’Italia si è consumato un divorzio fra gli interessi personali di cerchie ristrette di dipendenti di società pubbliche — protetti da tutto, irresponsabili di tutto — e le esigenze dei più deboli. La protervia con cui pochi dipendenti difendono il proprio diritto presunto a lavorare il meno possibile danneggia chi ha bisogno dei mezzi pubblici per lavorare, cercare lavoro o studiare. Ogni gesto di incuria, ogni rifiuto di fornire il servizio, ogni ora di assenza ingiustificata è rivolta contro di loro. Alla luce della protesta di due anni fa, appare risibile l’argomento secondo cui i turni dei macchinisti di Roma sarebbero «massacranti»: per contratto coprono 6 ore e 20 minuti, ma tanti sfuggono ai controlli e fanno molto meno. Gli abusi dei permessi retribuiti per l’assistenza ai familiari (in base alla legge 104 del ’92) paiono particolarmente odiosi: scaricano sui più vulnerabili nella collettività i costi fiscali e i disservizi di una norma, corretta, che dovrebbe garantire proprio il welfare. Tanto poi chi viene scoperto sa che potrà disinnescare il proprio licenziamento grazie al famoso Regio decreto 148 del 1931, norma di piena era corporativa fascista. E vorrà pur dire qualcosa.