ELETTORI A SINISTRA DEL PD MANCA UN FEDERATORE
Scenari Renzi sta cercando una rivincita personale, ma il Partito democratico aveva bisogno di un congresso vero Ora serve un confronto sulle comuni prospettive possibili tra lui e i fuoriusciti, che necessitano di un capo
Non è il caso di stilare atti di morte, ci mancherebbe. Ma sul fatto che il Pd sia molto, molto malato, e che i due milioni di voti raccolti da Matteo Renzi nelle primarie siano valsi a restituirgli un po’ di colorito, non ci sono davvero dubbi. E il guaio peggiore è che, mentre abbondano i tentativi di diagnosi, nessuno sembra disporre di qualcosa di simile a un terapia. Per cercare di capirci qualcosa, è forse il caso di prenderla un po’ alla larga, e cioè dal progetto originario esposto quasi dieci anni fa, al Lingotto, da Walter Veltroni. Che era quello di mettere in campo un partito di centrosinistra (ma già allora qualcuno diceva: più di centro che di sinistra) «a vocazione maggioritaria», in cui confluissero e si amalgamassero le diverse tradizioni del riformismo italiano; non l’ennesimo nuovo partito della Seconda Repubblica, ma un partito nuovo di zecca, capace di contendere direttamente a Berlusconi (all’epoca dei Cinque Stelle non c’era ancora traccia) la guida del Paese senza dover più pagare dazio a coalizioni rissose e impotenti.
Cosa ne resta? Poco o nulla. Ma che il progetto non fosse decollato — e qui poco importa stabilire se per sua intrinseca fragilità o perché in troppi avevano remato contro — fu chiaro fin da (quasi) subito, nonostante nelle elezioni del 2008, pur vinte come era facile prevedere da Berlusconi, il Pd di Veltroni avesse ottenuto un rispettabilissimo 33%, che in teoria avrebbe potuto essere la base di partenza per costruirlo davvero, questo partito. Neanche le dimissioni di Veltroni valsero ad aprire un confronto stringente per stabilire se l’idea forza su cui poggiava il Pd fosse andata in fumo o in stand by. Di questo, e più in generale di politica, negli anni successivi, quelli della segreteria di Bersani, si discusse poco. Sì, l’amalgama del Pd era mal riuscito, come annotava caustico D’Alema. Ma bisognava evitare che la maionese impazzisse, mandando in tilt «la ditta». Anche perché nel frattempo l’impero
berlusconiano era ormai giunto, e cupamente, al tramonto; e nelle elezioni del 2013, nonostante la drastica cura dimagrante cui il governo di Mario Monti aveva sottoposto gli italiani, il Pd sarebbe di sicuro passato all’incasso.
Le cose, come è noto, andarono molto diversamente. A Bersani rimase l’amaro in bocca per quella che i suoi eufemisticamente chiamarono una non vittoria, Berlusconi perse sì, ma senza tracollare, e soprattutto i Cinque Stelle fecero man bassa di voti. Dai tempi del Lingotto, erano radicalmente cambiati anche gli scenari: altro che bipartitismo alle porte, l’Italia non era più nemmeno bipolare, ma politicamente divisa in tre parti, una delle quali, quella con il vento in poppa, il Movimento Cinque Stelle, si proclamava indisponibile a coalizzarsi con chicchessia. Il trionfo di Renzi nelle primarie del dicembre 2013, il plateale sgambetto a Enrico Letta (perché di questo si trattò, anche se il segretario del Pd lo ricorda diversamente) nel febbraio 2014, e poi, a primavera, il famoso 40% alle elezioni europee, non si lasciano spiegare fuori da un simile contesto e dal mantra che rapidamente si diffuse, nel Pd e anche fuori. Basta traccheggi, basta sconfitte seppure onorevoli, basta liturgie del passato: serve un leader con la forma mentis del vincitore, capace di parlare agli italiani trasmettendo loro un’idea nonostante tutto ottimistica di Paese, qualcuno che non venga dal passato e non perda tempo ad almanaccare su cosa sia di sinistra, cosa di centro e cosa di destra, ma sfidi i Cinque Stelle sul loro stesso terreno, populismo dall’alto, di governo, contro populismo dal basso. E se per questa via il partito senza identità si trasforma di fatto nel partito del Capo e dei suoi fedelissimi, poco importa, anzi, è anche meglio: alzi la mano chi sente nostalgia per i partiti di una volta.
Il fatto, ma sarebbe meglio dire il guaio, è che il primo a riconoscersi senza se e senza ma in questo mantra, in tutti i suoi tre discussi e discutibili anni di governo, coronati dalla scelta suicida di trasformare il referendum costituzionale in un giudizio di Dio su sé medesimo, e, quel che è più sconcertante, anche dopo la disastrosa sconfitta referendaria, è stato, e continua ad essere, proprio Matteo Renzi. Che rimettendosi subito in campo in cerca di una rivincita molto probabilmente impossibile, invece di rendersi disponibile a quel congresso vero che il Pd attende da quasi dieci anni, ha contribuito non solo a creare le condizioni per la scissione (e questo forse non gli dispiace troppo), per il cristallizzarsi delle opposizioni interne e per il moltiplicarsi delle prese di distanza, ma anche ad aprire un interrogativo grosso come una casa sui destini suoi e del suo partito, divenuti, a questo punto, tutt’uno.
E ad aggravare il quadro c’è il fatto che alla sinistra di questo Pd c’è forse un rispettabile elettorato potenziale, ma di sicuro mancano sia un leader (Giuliano Pisapia non lo era già prima che formalizzasse l’indisponibilità a candidarsi) sia una proposta sia, prima ancora, qualcosa che somigli più a un confronto sulle prospettive che a una serie di interminabili schermaglie tra pezzi di ceto politico sicuramente più rispettabili di quanto dica la rappresentazione renziana, ma già sconfitti prima ancora che Renzi entrasse in scena. Cercasi federatore con le fattezze del combattente politico. Cercasi, ma, a quanto pare, non trovasi.
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