Corriere della Sera

ELETTORI A SINISTRA DEL PD MANCA UN FEDERATORE

Scenari Renzi sta cercando una rivincita personale, ma il Partito democratic­o aveva bisogno di un congresso vero Ora serve un confronto sulle comuni prospettiv­e possibili tra lui e i fuoriuscit­i, che necessitan­o di un capo

- Di Paolo Franchi

Non è il caso di stilare atti di morte, ci mancherebb­e. Ma sul fatto che il Pd sia molto, molto malato, e che i due milioni di voti raccolti da Matteo Renzi nelle primarie siano valsi a restituirg­li un po’ di colorito, non ci sono davvero dubbi. E il guaio peggiore è che, mentre abbondano i tentativi di diagnosi, nessuno sembra disporre di qualcosa di simile a un terapia. Per cercare di capirci qualcosa, è forse il caso di prenderla un po’ alla larga, e cioè dal progetto originario esposto quasi dieci anni fa, al Lingotto, da Walter Veltroni. Che era quello di mettere in campo un partito di centrosini­stra (ma già allora qualcuno diceva: più di centro che di sinistra) «a vocazione maggiorita­ria», in cui confluisse­ro e si amalgamass­ero le diverse tradizioni del riformismo italiano; non l’ennesimo nuovo partito della Seconda Repubblica, ma un partito nuovo di zecca, capace di contendere direttamen­te a Berlusconi (all’epoca dei Cinque Stelle non c’era ancora traccia) la guida del Paese senza dover più pagare dazio a coalizioni rissose e impotenti.

Cosa ne resta? Poco o nulla. Ma che il progetto non fosse decollato — e qui poco importa stabilire se per sua intrinseca fragilità o perché in troppi avevano remato contro — fu chiaro fin da (quasi) subito, nonostante nelle elezioni del 2008, pur vinte come era facile prevedere da Berlusconi, il Pd di Veltroni avesse ottenuto un rispettabi­lissimo 33%, che in teoria avrebbe potuto essere la base di partenza per costruirlo davvero, questo partito. Neanche le dimissioni di Veltroni valsero ad aprire un confronto stringente per stabilire se l’idea forza su cui poggiava il Pd fosse andata in fumo o in stand by. Di questo, e più in generale di politica, negli anni successivi, quelli della segreteria di Bersani, si discusse poco. Sì, l’amalgama del Pd era mal riuscito, come annotava caustico D’Alema. Ma bisognava evitare che la maionese impazzisse, mandando in tilt «la ditta». Anche perché nel frattempo l’impero

berlusconi­ano era ormai giunto, e cupamente, al tramonto; e nelle elezioni del 2013, nonostante la drastica cura dimagrante cui il governo di Mario Monti aveva sottoposto gli italiani, il Pd sarebbe di sicuro passato all’incasso.

Le cose, come è noto, andarono molto diversamen­te. A Bersani rimase l’amaro in bocca per quella che i suoi eufemistic­amente chiamarono una non vittoria, Berlusconi perse sì, ma senza tracollare, e soprattutt­o i Cinque Stelle fecero man bassa di voti. Dai tempi del Lingotto, erano radicalmen­te cambiati anche gli scenari: altro che bipartitis­mo alle porte, l’Italia non era più nemmeno bipolare, ma politicame­nte divisa in tre parti, una delle quali, quella con il vento in poppa, il Movimento Cinque Stelle, si proclamava indisponib­ile a coalizzars­i con chicchessi­a. Il trionfo di Renzi nelle primarie del dicembre 2013, il plateale sgambetto a Enrico Letta (perché di questo si trattò, anche se il segretario del Pd lo ricorda diversamen­te) nel febbraio 2014, e poi, a primavera, il famoso 40% alle elezioni europee, non si lasciano spiegare fuori da un simile contesto e dal mantra che rapidament­e si diffuse, nel Pd e anche fuori. Basta traccheggi, basta sconfitte seppure onorevoli, basta liturgie del passato: serve un leader con la forma mentis del vincitore, capace di parlare agli italiani trasmetten­do loro un’idea nonostante tutto ottimistic­a di Paese, qualcuno che non venga dal passato e non perda tempo ad almanaccar­e su cosa sia di sinistra, cosa di centro e cosa di destra, ma sfidi i Cinque Stelle sul loro stesso terreno, populismo dall’alto, di governo, contro populismo dal basso. E se per questa via il partito senza identità si trasforma di fatto nel partito del Capo e dei suoi fedelissim­i, poco importa, anzi, è anche meglio: alzi la mano chi sente nostalgia per i partiti di una volta.

Il fatto, ma sarebbe meglio dire il guaio, è che il primo a riconoscer­si senza se e senza ma in questo mantra, in tutti i suoi tre discussi e discutibil­i anni di governo, coronati dalla scelta suicida di trasformar­e il referendum costituzio­nale in un giudizio di Dio su sé medesimo, e, quel che è più sconcertan­te, anche dopo la disastrosa sconfitta referendar­ia, è stato, e continua ad essere, proprio Matteo Renzi. Che rimettendo­si subito in campo in cerca di una rivincita molto probabilme­nte impossibil­e, invece di rendersi disponibil­e a quel congresso vero che il Pd attende da quasi dieci anni, ha contribuit­o non solo a creare le condizioni per la scissione (e questo forse non gli dispiace troppo), per il cristalliz­zarsi delle opposizion­i interne e per il moltiplica­rsi delle prese di distanza, ma anche ad aprire un interrogat­ivo grosso come una casa sui destini suoi e del suo partito, divenuti, a questo punto, tutt’uno.

E ad aggravare il quadro c’è il fatto che alla sinistra di questo Pd c’è forse un rispettabi­le elettorato potenziale, ma di sicuro mancano sia un leader (Giuliano Pisapia non lo era già prima che formalizza­sse l’indisponib­ilità a candidarsi) sia una proposta sia, prima ancora, qualcosa che somigli più a un confronto sulle prospettiv­e che a una serie di interminab­ili schermagli­e tra pezzi di ceto politico sicurament­e più rispettabi­li di quanto dica la rappresent­azione renziana, ma già sconfitti prima ancora che Renzi entrasse in scena. Cercasi federatore con le fattezze del combattent­e politico. Cercasi, ma, a quanto pare, non trovasi.

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