LE RAGIONI DELLA CHIESA SULL’AFRICA
Prima di proporre un «piano Marshall» per il Continente bisogna conoscere le dinamiche migratorie interne e individuare leadership stabili
Aleggere con attenzione ciò che dice e scrive monsignor Nunzio Galantino, si scopre che non è affatto vero si sia pronunciato contro le iniziative che l’Italia si accinge a prendere per soccorrere i profughi «a casa loro». Né che ci sia contrasto, se non in qualche sfumatura, tra lui e il cardinale Pietro Parolin il quale ha sostenuto che si dovrebbe aiutare «veramente» i Paesi africani da cui vengono i profughi, «in modo tale che la migrazione non sia più una realtà forzata». È lo stesso segretario generale della Conferenza episcopale italiana (Galantino) a specificare che la campagna «liberi di partire, liberi di restare» non è mossa da intenti «buonisti» ma intende soltanto distinguere tra gli «insopportabili cori da stadio» le «proposte costruttive» e soprattutto l’«indifferenza praticata». Non ci sono allusioni critiche, neanche una piccola e obliqua, al tentativo che da qualche mese il ministro italiano dell’Interno Marco Minniti sta facendo per aiutare i capi tribù della Libia meridionale (i tredici sindaci del Fezzan) a opporre una barriera ai trafficanti di profughi. Un proposito che a ogni evidenza il Segretario di Stato della Santa Sede (Parolin) considera valido, anche perché l’aiuto dovrebbe consistere sì nell’organizzazione di una più efficace polizia di frontiera, ma soprattutto nell’offerta di mezzi per costruire in quelle aree quasi desertiche qualcosa che assomigli a un tessuto di vita civile.
Qualcosa che comincia a intravedersi a livello embrionale se è vero che i «sindaci» di Janzur, Al Maya e Zuwarah, sarebbero adesso in grado di documentare come hanno — sia pur saltuariamente — bloccato negli ultimi diciotto mesi i trafficanti. E soprattutto si dichiarano pronti a portare le prove di esserci riusciti con il consenso attivo delle popolazioni da loro amministrate. Le quali in qualche caso avrebbero dato una mano attiva al successo di tali operazioni. Si tratterebbe, lo ripetiamo, di tentativi occasionali che, soprattutto se non adeguatamente sostenuti, non ci autorizzano a supporre si sia costituito nella Libia meridionale qualcosa che assomigli a una guardia di frontiera. Ma forse siamo in presenza di piccoli segnali che fanno ben sperare.
Se ne parlerà in ogni caso lunedì prossimo in un’importante conferenza a Tunisi dove assieme al primo ministro libico Al Serraj, agli italiani e ai rappresentati del gruppo di contatto europeo (Francia, Germania, Austria e Svizzera) ci saranno anche quelli di Ciad e Niger, i Paesi con i quali la Libia confina a sud. Segno che stavolta non si discuterà solo del modo di arginare le migrazioni in mare, ma anche di come riuscire a farlo nel lungo tragitto via terra che queste masse di diseredati devono percorrere prima di attraversare il Mediterraneo. È quella di tale tragitto una questione fondamentale che — oltre a Minniti e pochissimi altri — sembra aver chiara soltanto la Chiesa, che ne parla con competenza. Si dà il caso, infatti, che non solo pressoché nessuno tra i profughi imbarcati dalla Libia alla volta dell’Italia provenga dalla Libia stessa, ma che neppure ci sia tra loro qualcuno che sia nato in Niger o in Ciad. Degli 85.217 giunti da noi nei primi sei mesi dell’anno in corso (l’8,9 per cento in più rispetto al 2016) 14.504 vengono dalla Nigeria — che pure confina con il Niger — e ben 8.268 (quasi il 10%) dal Bangladesh. Addirittura dal Bangladesh!
Chi propone un «piano Marshall» per consentire ai futuri migranti di trovare opportunità di sopravvivenza nei Paesi da cui si mettono in marcia dovrebbe perciò considerare che si tratterebbe a oggi di un’operazione assai più complessa di quella con la quale gli Stati Uniti, dopo la Seconda guerra mondiale, aiutarono i Paesi dell’Europa occidentale a rimettersi in piedi. Prima di tutto perché un «piano Marshall» richiede che i Paesi destinatari degli aiuti abbiano delle leadership stabili, in buoni rapporti con gli erogatori dei fondi, e trasparenti nella gestione degli stessi. In secondo luogo perché, prima di avviare tali poli- tiche di sostegno, è necessario siano debellate le organizzazioni delinquenziali che gestiscono il traffico dei migranti. E occorre che ciò sia fatto con l’attiva partecipazione delle popolazioni in loco. Sia nei Paesi di provenienza, sia in quelli di transito che — come per il caso di coloro che provengono dal Bangladesh — possono essere ben più di due o tre.
Come ci si dovrebbe regolare poi se si riuscisse a rendere invalicabile la frontiera tra Libia, Niger e Ciad? La Libia, come è noto, è ancora lontana dall’essere pacificata. Sarebbe pericoloso costruire adesso campi profughi che rischierebbero di trasformarsi in focolai di infezione anche in senso non metaforico dove, per di più, potrebbero mettere radici i virus del terrorismo islamico. Ampie aree del Niger e del Ciad sfuggono inoltre al controllo delle autorità centrali e sono in mano a organizzazioni illegali, fin qui in grado di comprare il consenso delle popolazioni nomadi del luogo.
Ovvio perciò che l’aiuto ai sindaci del Fezzan sia solo un primo passo a cui ne dovrebbero seguire altri egualmente impegnativi. Ma quando la partita libica si giocasse nei deserti ai confini con Niger e Ciad anziché nel tratto di mare che separa la costa della Tripolitania dalla Sicilia, sarebbe possibile riconsiderare la situazione con il resto dell’Europa così da impegnarla con nuove responsabilità.
Strano che a tutto ciò sia più attenta la Chiesa, di quanto non riescano a esserlo i partiti italiani che si sono occupati della questione. Ma, a ben pensarci, non è strano per niente.
Agenda Lunedì prossimo a Tunisi c’è un importante appuntamento per fare il punto sul fronte libico