Corriere della Sera

«Yara poteva essere mia figlia»

Brescia, l’attesa per la sentenza di Appello. I giudici rinviano più volte il momento del verdetto Il muratore: «Quel dna non è mio, uscirò a testa alta». La madre dell’imputato piange in aula

- di Marco Imarisio

Ha parlato per quaranta minuti davanti alla Corte per difendersi dall’accusa di essere l’assassino di Yara. «Poteva essere mia figlia, neanche un animale avrebbe usato tanta crudeltà», ha detto Massimo Bossetti nell’ultima udienza del processo di appello.

Non prima delle 18, poi delle 20, poi ancora delle 22. L’attesa per la sentenza d’Appello di Massimo Bossetti, condannato in primo grado all’ergastolo per l’omicidio di Yara Gambirasio, è un rinvio continuo. Alle 22 i giudici non sono ancora riemersi dalla camera di consiglio. E questo significa che i due togati e i sei popolari, tre uomini e tre donne, usciranno con una decisione che non ha trascurato il minimo dettaglio emerso nelle quattro udienze. Perizia o sentenza che sia. È quello che ha invocato il carpentier­e di Mapello al mattino, quando per quaranta minuti, delle 8.40, ha letto il suo ultimo appello prima che la Corte d’Assise si ritirasse. «Non vi ho mai tolto lo sguardo di dosso per vedere il vostro interesse. Mi avete colpito, avete preso appunti», si è rivolto loro. Li ha invitati a mettersi nei suoi panni, «marcire in carcere da innocente», e dalla sua parte, «a non lasciar perdere nulla ma lottare al mio fianco alla ricerca della verità».

La verità, il sostituto procurator­e generale Marco Martani non ha avuto nessun dubbio, è una sola: il dna inchioda l’imputato, che è colpevole. Gli avvocati Enrico Pelillo e Andrea Pezzotta, per Maura e Fulvio

Gambirasio, hanno mostrato la medesima certezza. Le analisi che secondo i difensori di Bossetti sono viziate da «261 criticità» che demoliscon­o la prova regina, secondo l’accusa pubblica e privata danno invece la «tranquilli­tà del risultato». Il carpentier­e ha invocato la perizia: «Sono sicuro che il dna non è mio, sarei un pazzo a chiederla se avessi ucciso io Yara».

Secondo il senso comune, ci si potrebbe chiedere: ma perché non concedergl­iela dal momento che c’è in gioco la sua vita? Il pg e le parti civili, con il linguaggio del diritto, hanno risposto che l’imputato non ha partecipat­o alle analisi perché non si sapeva nemmeno che esistesse all’epoca dei test, regolari e affidabili.

Il corridoio davanti all’aula dedicata ad Agostino Pianta, al piano terra, si ripopola verso le 21. Si era svuotato all’ennesima indiscrezi­one sui tempi della camera di consiglio. Ma è ancora presto. Marita Comi, puntualiss­ima al mattino, seduta come per tutte le cinque udienze dietro al marito, la sera torna con il fratello Agostino e la cognata Nadia. Mamma Ester Arzuffi e la figlia Laura Letizia sono rimaste tutto il giorno in tribunale. «Speriamo in bene», sorride Ester. Al mattino ha pianto quando il suo Massimo ha raccontato di essere innocente: «Capitelo una volta per tutte che la violenza non è nella mia indole. Non sono un assassino. Hanno fatto di me un mostro. Yara poteva essere mia figlia».

I figli. Bossetti ne ha tre. Un ragazzo di 16 anni e due bambine di 13 e 9. «Ma non c’è un’altra porta da cui puoi uscire?» gli chiedono loro quando vanno a trovarlo in carcere. Lui, dice, risponde così: «Uscirò dalla porta principale, a testa alta».

L’imputato Neanche un animale avrebbe usato tanta crudeltà Sono vittima del più grande errore giudiziari­o di tutta la storia L’arresto C’era necessità di umiliarmi davanti ai miei figli? Mi sono sentito una lepre sbranata da innumerevo­li cacciatori

dalla casa dei Gambirasio, sono domande a cui è possibile dare risposte logiche e di segno contrario, Bossetti abita a Mapello, un posto così vicino da essere coperto dallo stesso ripetitore, gira sempre con quel furgone, a Brembate di Sopra ha un fratello, può essere normale che ci passasse quasi ogni giorno.

La divisione tra le due opposte fazioni, tra accusa e difesa, riguarda un altro tipo di giudizio o pregiudizi­o, e ha sempre richiesto come gesto preliminar­e per schierarsi un atto di fede nella scienza. La fede nella sua precisione, contrappos­ta a un empirismo che gli avvocati della difesa hanno fatto molta fatica ad affermare in aula, dove contano le prove, e qui ce n’era una sola, quella del dna, ma monolitica, a patto di credere nella sua esattezza,

Abitudinar­io I racconti ai colleghi di donne e ricchezze che non aveva e i pasticcini ai genitori la domenica

nell’impossibil­ità dell’errore umano e di macchine dalla tecnologia vertiginos­a. Lo disse bene l’avvocato della famiglia Gambirasio durante il processo di primo grado: inutile girarci intorno, conta solo il dna, la prova regina intorno alla quale è stata costruita un’indagine parallela sulla vita di un imputato, e tutti sanno che la parola definitiva su di essa, sul modo in cui la traccia genetica è stata raccolta, sulla sua validità, arriverà dalla Cassazione.

Massimo Bossetti è stato lo spettatore attonito, dalla faccia sempre perplessa, di un processo dove era l’unico imputato, ma dove quasi mai si è parlato di lui. Continuand­o così, quasi a sua insaputa, nell’unico modo che gli è consentito e che gli è possibile, a essere un mistero.

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