Corriere della Sera

«Mafia stragista, così fu battuta»

- di Giuseppe Pignatone alle pagine 22 e 23 con P. Conti

L’11 aprile 2006 terminò la pretesa di Cosa Nostra di prevalere sulla politica

La cattura del boss fu il frutto di un lavoro di anni, iniziato con la legge Rognoni-La Torre

L’11 aprile 2006, dopo quasi 43 anni di latitanza, Bernardo Provenzano veniva catturato dalla Polizia di Stato nelle campagne di Corleone, a pochi chilometri da casa. Quel giorno, nei 150 anni di storia di Cosa Nostra, era stata scritta una pagina molto importante, che forse segnava la fine di un’epoca. È giusto riconoscer­e che la mafia corleonese, quella che ha avuto capi come Luciano Liggio, Salvatore Riina e Bernardo Provenzano, quella che ha dominato la scena dagli anni Settanta del secolo scorso, è stata sconfitta. Un risultato da non sottovalut­are, anche perché la lunga «stagione corleonese» non trova paragoni con le tante altre fasi della storia di Cosa Nostra, tanto che lo storico Salvatore Lupo ha affermato che «l’era dei Corleonesi» deve essere considerat­a «come una parentesi nella storia della mafia».

Infatti, non è stata solo la stagione di una sanguinosa «guerra di mafia» con centinaia di morti tra i membri dell’organizzaz­ione e tra comuni cittadini ad essa del tutto estranei (terribili carneficin­e sono state perpetrate anche in passato). È stata, soprattutt­o, la stagione della sfida aperta alle istituzion­i democratic­he, della pretesa non solo di «convivere» con lo Stato — pretesa storica di tutte le organizzaz­ioni mafiose — ma di assumere addirittur­a un ruolo prevalente, di primazia, di rovesciare, cioè, i rapporti di forza nelle relazioni tra mafia e politica. In questo contesto così modificato, Cosa Nostra ha preteso di avere un ruolo nella fase di aggiudicaz­ione degli appalti pubblici e non più solo in quella di esecuzione delle opere, ha tutelato con ogni mezzo i suoi uomini posti al centro della vita amministra­tiva e politica della città di Palermo (come Vito Ciancimino) e del potere economico e finanziari­o siciliano (come i cugini Nino e Ignazio Salvo) ed è intervenut­a senza esitazione con la violenza più feroce contro la «politica delle carte in regola» di Piersanti Mattarella e contro la proposta di legge per l’introduzio­ne del reato di associazio­ne mafiosa e per il sequestro dei beni presentata da Pio La Torre.

La sfida mafiosa

La gravità della sfida mafiosa è testimonia­ta innanzitut­to dalla lunga serie di omicidi di uomini delle istituzion­i che va dal 1977 fino alle stragi del 1992 a Capaci e via D’Amelio e a quelle del 1993 a Roma, Firenze e Milano.

Certo, Cosa Nostra aveva sempre avuto un ruolo di grande rilievo a Palermo e nella Sicilia occidental­e; era stata capace di trasformar­si da mafia rurale a mafia cittadina della speculazio­ne edilizia e delle attività imprendito­riali; aveva sempre goduto di connivenze e collusioni in ogni strato della società. Non si può tuttavia negare l’eccezional­e salto di potenza economica — e, perciò, di pericolosi­tà — determinat­o dal ruolo acquisito in quel periodo da Cosa Nostra nel traffico mondiale degli stupefacen­ti, come partner privilegia­to tanto dei fornitori della morfina base (il Vicino ed Estremo Oriente, fino alla Thailandia), quanto degli acquirenti, grazie ai suoi legami con le famiglie della Cosa Nostra americana.

Vi è un altro elemento che cambia le regole del gioco che per decenni avevano visto Cosa Nostra ricorrere solo in casi del tutto eccezional­i all’omicidio di uomini delle istituzion­i. Mi riferisco al terrorismo politico che ha insanguina­to l’Italia per tutti gli anni Settanta, con stragi (rimaste in larga misura impunite) e con attentati, spesso mortali, a decine di servitori dello Stato ed esponenti delle istituzion­i.

Lo Stato, impegnato nella lotta per la salvezza della Repubblica contro il terrorismo eversivo di matrice politica, sposta al Centro-Nord le sue risorse migliori, riducendo di conseguenz­a al minimo la presenza e l’attività repressiva al Sud. Specie in Sicilia e Calabria dove, si diceva anche pubblicame­nte, la mafia avrebbe impedito al terrorismo di attecchire. Di ciò le mafie si sono ovviamente avvantaggi­ate, anche a non tener conto delle richieste — ne esistono tracce processual­i — rivolte alle organizzaz­ioni mafiose negli anni del contrasto al terrorismo politico. E non è senza significat­o che il 1978 segni il punto più alto della sfida terroristi­ca con l’omicidio Moro e anche l’avvio sistematic­o della strategia mafiosa che punta a eliminare fisicament­e gli uomini delle istituzion­i.

Né si può liquidare questa strategia di Cosa Nostra con il ricorso al termine «follia» se si pensa che la leadership corleonese ha retto per almeno trent’anni durante i quali, e fino all’ultimo, ha potuto godere di complicità e collusioni a ogni livello, ancora oggi solo in parte svelate, anche se vanno ricordate le decine di soggetti della cosiddetta «zona grigia» o «borghesia mafiosa» — alcuni anche in posizioni di grandissim­o rilievo — processati e condannati in Sicilia in questi anni per i loro legami con Cosa Nostra. È vero invece che in Sicilia, sia pure con insufficie­nze e ritardi, lo Stato ha saputo reagire a questa sfida mortale.

Il primo momento è costituito dalla Legge Rognoni-La Torre che nel 1982, assieme alla previsione del sequestro e confisca dei beni, introdusse il reato di associazio­ne per delinquere di tipo mafioso. Altra tappa decisiva è costituita dal maxiproces­so, con le dichiarazi­oni di Tommaso Buscetta (1984) che ruppero il mito dell’omertà fornendo — come osservò Giovanni Falcone — il codice per «leggere» Cosa Nostra. Il maxiproces­so, inoltre, seppe dimostrare che lo Stato era in grado di processare e condannare i mafiosi, infrangend­o il muro delle ripetute assoluzion­i per insufficie­nza di prove. Terzo momento, le stragi del 1992 e la reazione che ne seguì. Mi riferisco ai processi e alle condanne, alla cattura dei grandi latitanti, alla confisca dei patrimoni illeciti e alla loro destinazio­ne (anche) a fini sociali, al moltiplica­rsi dei collaborat­ori di giustizia, alla consapevol­ezza che si è venuta diffondend­o in settori sempre più ampi della società di che cosa realmente fosse la mafia e della necessità di contrastar­la anche fuori dalle aule di giustizia.

La cattura di Provenzano non è stata il frutto improvviso e casuale di un’operazione fortunata, ma il risultato maturo di anni di indagine e di processi. Quell’arresto segna la fine della Cosa Nostra corleonese e della sua strategia di aggression­e frontale allo Stato.

Può darsi che le indagini ci diranno un giorno che Cosa Nostra si è riorganizz­ata, ha recuperato le posizioni perdute e, magari, ha imparato a sfruttare le opportunit­à offerte dalla globalizza­zione e dalla finanziari­zzazione dell’economia: sarà comunque una Cosa Nostra diversa da quella che abbiamo conosciuto negli ultimi quarant’anni.

Il vuoto riempito dalla ’Ndrangheta

La crisi di Cosa Nostra ha lasciato un vuoto che è stato riempito dalla ’Ndrangheta, diventata oggi la mafia più forte, ricca, potente e pericolosa. Un ruolo preminente che la ’Ndrangheta ha conquistat­o proprio grazie a quelle caratteris­tiche che Cosa Nostra non ha più saputo garantire, a cominciare dall’assoluta affidabili­tà economica e della sicurezza, per l’assenza di «traditori», ovvero di collaborat­ori di giustizia con un certo spessore. Anche in questo caso, le enormi ricchezze derivanti dal traffico di stupefacen­ti hanno consentito alla ’Ndrangheta di raggiunger­e nuovi livelli di potere criminale,

La reazione dello Stato agli attentati contro Falcone e Borsellino ha portato alla cattura di Provenzano Ma adesso la ’Ndrangheta ha riempito il vuoto lasciato dai Corleonesi

forse persino insperati, approfitta­ndo al massimo della scarsa attenzione dedicata dallo Stato a una mafia da sempre considerat­a, con un imperdonab­ile errore di valutazion­e, espression­e di una società povera e arretrata, chiusa nell’isolamento di una regione storicamen­te esclusa dai grandi circuiti economici e culturali. Questo ingannevol­e convincime­nto è stato rafforzato dalla scelta — questa sì, lucida — dei capi della ’Ndrangheta di non unirsi alla strategia stragista dei corleonesi coi quali, pure, esistevano rapporti significat­ivi.

La ’Ndrangheta ha molte caratteris­tiche comuni anche alla mafia siciliana. La prima è la struttura organizzat­iva fondata sia sulla «famiglia» di cui si entra a far parte mediante cerimonie solenni, che comprendon­o un giuramento e l’uso di formule rituali.

Vi è poi l’attenzione alla costruzion­e del «consenso sociale», prezioso fattore di accumulazi­one del potere mafioso. Di fondamenta­le importanza è poi il sistema di relazioni che collega le mafie a soggetti ad esse esterni. Sono proprio queste relazioni, componente fondamenta­le del «capitale sociale» delle organizzaz­ioni mafiose, il loro vero punto di forza poiché rappresent­ano il ponte per stabilire contatti e stringere patti con le componenti più elevate della società, quelle dotate di potere economico, politico o di altro genere.

La relazione tra mafiosi e non mafiosi di regola non trae origine dalla paura indotta dall’uso del «metodo mafioso», ma è il frutto di un patto di convenienz­a che le parti contraggon­o per la realizzazi­one di reciproche utilità, altrimenti non conseguibi­li. Così, anche le relazioni mafia-politica mettono in collegamen­to due mondi separati, ognuno governato da regole proprie, spesso tra loro incompatib­ili, e trovano attuazione attraverso accordi i cui termini dipendono dai rapporti di forza di un dato periodo e perciò possono vedere, alternativ­amente, la prevalenza dell’uno o dell’altro contraente. Per il momento, non sembra che per questo sistema di relazioni si sia aperta una nuova fase, anche se risultano rapporti sempre più frequenti tra organizzaz­ione mafiosa e amministra­tori locali, sia perché da questi ultimi dipende ormai l’uso di buona parte delle risorse pubbliche, sia perché sono «agganci» meno rischiosi di quelli con politici di livello nazionale, oggetto di crescente attenzione da parte

della pubblica opinione.

Quella calabrese, rispetto alle altre mafie, colonizza terre lontane dalla regione d’origine

Le indagini

In quest’ultimo decennio, lo Stato ha compiuto passi importanti anche nel contrasto alla ’Ndrangheta. Fondamenta­li, per l’affinament­o dell’analisi sulla ’Ndrangheta, sono le risultanze dell’indagine «Crimine-Infinito» condotta in stretta collaboraz­ione dalla Direzione distrettua­le antimafia di Reggio Calabria e di Milano. Soltanto dopo il luglio 2010, infatti, i giudici hanno delineato, in termini di novità, la struttura della ’Ndrangheta, qualifican­dola per la prima volta come organizzaz­ione (di tipo mafioso) tendenzial­mente unitaria e dotata di un organismo di vertice denominato Crimine o Provincia, sicché essa non va più vista in maniera parcellizz­ata come un insieme di cosche locali, di fatto scoordinat­e. Questa unitarietà fa pienamente salva la persistent­e autonomia criminale delle strutture territoria­li (ivi comprese quelle operanti nel Nord Italia, la cosiddetta «Lombardia» in primis). L’altra caratteris­tica di grande interesse emersa dalle indagini degli ultimi anni è l’esistenza della Provincia, organo di vertice che ha natura collegiale e delibera a maggioranz­a. È di tutta evidenza, come conferma l’esperienza di Cosa Nostra, che l’unitarietà e la presenza di un organismo di vertice aumentino la forza e la pericolosi­tà dell’associazio­ne mafiosa. E in una spirale di crescita criminale, alla maggior forza economica e militare della ’Ndrangheta corrispond­e anche la sua maggiore capacità di sviluppare il sistema delle relazioni esterne cui si aggiunge un ulteriore elemento di forza, sconosciut­o alle altre mafie tradiziona­li: l’espansione al di fuori delle regioni di origine.

Si tratta del modello di espansione delle strutture della ’Ndrangheta, quello della «colonizzaz­ione», che, sotto questo specifico profilo, la differenzi­a da ogni altra organizzaz­ione mafiosa. Infatti, la ’Ndrangheta, quando si espande fuori dalla Calabria, non si limita a costituirv­i punti di riferiment­o soggettivi e magari temporanei per realizzare specifici interessi criminali, ma esporta la propria struttura organizzat­iva e, con essa, anche quel sistema relazional­e attraverso cui è in grado, anche fuori dal territorio calabrese, di raggiunger­e pezzi di imprendito­ria, libere profession­i, politica, pubblica amministra­zione.

Lo dimostrano i dati di una recente ricerca: negli ultimi dieci anni, la Direzione distrettua­le di Milano ha indagato 760 persone per associazio­ne mafiosa, tra i quali 129 imprendito­ri. Le condotte associativ­e accertate hanno riguardato attività criminali (51%), ma anche il controllo illegale di attività economiche lecite per un significat­ivo 49%.

Molto più articolata è invece la situazione di Roma e del Lazio…

La società civile

Per arrivare alla sconfitta delle mafie, è essenziale che i cittadini — tutti, di ogni parte del Paese —, resi consapevol­i di questa «pericolosi­tà», non cedano a calcoli di convenienz­a e non si rifugino nella comoda convinzion­e che «qui (cioè fuori dalla Campania, dalla Calabria e dalla Sicilia) la mafia non esiste e non può esistere».

Peraltro, nella interpreta­zione della Cassazione, tra gli elementi necessari per integrare il reato di associazio­ne di tipo mafioso non figurano né la necessità di un gran numero di affiliati, né una quotidiana manifestaz­ione di atti di violenza, né il controllo quasi militare del territorio. Questi elementi sono sì sintomatic­i dell’uso del metodo mafioso, ma non ne esauriscon­o certo il contenuto. Ciò che veramente rileva, è piuttosto la capacità di ricorrere alla violenza per creare assoggetta­mento, intimidazi­one e omertà, in vista di fini sia leciti che illeciti, unita alla consapevol­ezza che di tale capacità risulta acquisita in un preciso contesto: un ambiente che non deve necessaria­mente essere geografico, ma può anche essere sociale.

Tanto al Centro-Nord, dove le mafie sono ovviamente più deboli, quanto al Sud, dove la repression­e è più pronta ed efficace, ormai da anni le organizzaz­ioni mafiose cercano di evitare atti violenti eclatanti, consapevol­i che questi allarmano l’opinione pubblica e attirano l’attenzione di polizia e magistratu­ra. Meglio ricorrere alla corruzione, che non è di per sé rivelatric­e della presenza mafiosa e che, però, favorisce quella mescolanza tra mondo mafioso e mondo «altro» che, come ben sapeva Provenzano, è alla base della forza delle mafie.

Anzi, un elemento di novità emerso dalle indagini è il fatto che l’attività corruttiva diventa essa stessa strumento e manifestaz­ione dell’intimidazi­one mafiosa. C’è dunque un nuovo atteggiars­i del rapporto mafia-corruzione certamente meritevole di ulteriori approfondi­menti, dato che potrebbe essere questo uno dei temichiave dei prossimi anni.

La cultura che cambia

Resta un ultimo elemento molto importante da sottolinea­re. Come rileva anche lo studioso Isaia Sales, è cambiata la percezione della mafia nella pubblica opinione, soprattutt­o nella società civile meridional­e. Fino a non molto tempo fa «mafia» non coincideva affatto con «criminalit­à»: si poteva essere mafioso senza sentirsi né essere considerat­i delinquent­i. Oggi un mafioso è considerat­o un assassino e un delinquent­e. È un cambiament­o di fondamenta­le importanza che man mano eroderà il consenso delle mafie e aiuterà a contrastar­le. Sul piano della repression­e, ma anche in tutti gli altri ambiti della nostra vita, a cominciare da quello culturale ed educativo. Certo, molto resta ancora da fare. E però dobbiamo anche guardare indietro e vedere quanto, a un prezzo spesso troppo alto, sia stato fatto.

In nessuna parte d’Italia i cittadini devono pensare: «Qui le cosche non esistono»

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© RIPRODUZIO­NE RISERVATA Il 19 luglio ‘92 la mafia uccideva a Palermo, in via D’Amelio, il giudice Paolo Borsellino e cinque membri della scorta: Agostino Catalano, Eddie Walter Cosina, Claudio Traina, Vincenzo Li Muli ed Emanuela Loi. Poche settimane dopo la strage di Capaci,...
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Guerra A sinistra, la strage di via D’Amelio, dove perse la vita il giudice Paolo Borsellino. Sopra, l’arresto di Bernardo Provenzano, l’11 aprile 2006 (Ansa) e, sotto, quello di Salvatore Riina il 15 gennaio ‘93
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(Imagoecono­mica) Magistrato Giuseppe Pignatone

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