Corriere della Sera

Il tenace «gioco» degli iraniani: un corridoio d’armi e d’affari che attraversi l’Iraq fino al mare

- Guido Olimpio

«Missione compiuta», proclama George W. Bush sulla portaerei Lincoln il 1° maggio del 2003 riferendos­i all’invasione dell’Iraq. Discorso che mancava di una postilla: missione compiuta certo, ma per l’Iran. Quattordic­i anni dopo l’infausta spedizione, lanciata per «esportare la democrazia», gli Stati Uniti rivedono i conti. Oltre 4 mila soldati caduti, decine di migliaia di civili uccisi, una montagna di denaro spesa e un quadro strategico — come sottolinea una lunga analisi del New York Times — in favore di Teheran. Esperti avveduti avevano messo in guardia, li hanno ignorati. La caduta del bastione Saddam, dittatore osceno (quello che è accaduto dopo non lo assolve), ha favorito il dilagare degli sciiti e dato spazio all’estremismo sunnita, prima con Al Qaeda, poi sotto la bandiera del Califfo. Chissà cosa penserebbe oggi l’ayatollah Khomeini. Lui fu costretto a bere «l’amaro calice» della tregua con Bagdad. Otto anni di conflitto, dal 1980 all’88, avevano dissanguat­o i due nemici, impossibil­e continuare. Adesso i suoi eredi si trovano tra le mani un frutto maturo — l’Iraq — che ne porterà altri.

A Washington hanno già una mappa davanti ai loro occhi, è quella che descrive la nascita di un corridoio logistico-commercial­e-militare che attraversa Iraq-Siria per sbucare nel Mediterran­eo. Teheran ha messo radici con i partner iracheni, la struttura Badr (apparato dai molti impieghi, bellici e civili), i consiglier­i e gli immancabil­i pasdaran. L’appartenen­za comune alla fede sciita ha reso tutto più facile, gli errori compiuti dagli Stati Uniti hanno fatto il resto. Gli iracheni esaltano le capacità del generale Qassim Soleimani, il responsabi­le della Qods, divisione speciale dei Guardiani della rivoluzion­e. È stato lui ad agevolare l’apertura del sentiero strategico. È stato ancora lui a dettare molte mosse. Non c’è stata battaglia chiave dove l’alto ufficiale non si sia fatto fotografar­e per rimarcare il suo ruolo. In qualche caso gli americani hanno dato carta bianca e lavorato insieme perché non avevano alternativ­e.

Pazienti, tenaci, conoscitor­i del territorio, gli iraniani hanno sviluppato il loro piano attorno ad alcuni pilastri: 1) penetrazio­ne commercial­e; 2) network di infrastrut­ture in sostegno a quelle irachene; 3) assistenza nel sociale (da anni); 4) impegno politico e manovre su Bagdad; 5) creazione di milizie sciite che rappresent­ano un contropote­re e sono lo strumento di Teheran; 6) sponda alle iniziative del Cremlino, ma mantenendo una propria agenda autonoma.

Il conflitto in Siria e quello contro lo Stato Islamico hanno rappresent­ato una necessità e un pretesto. I guardiani hanno messo insieme combattent­i iracheni, «volontari» stranieri (libanesi, pachistani, afghani) e movimenti amici (Hezbollah) per avere una forza d’urto schierata al fianco di Assad e di Bagdad. Presenza ingombrant­e ormai accettata. È curioso notare come la loro azione di sia spesso presentata solo come un «aiuto fraterno» e non come il segnale di un disegno più ampio. Questi «soldati» non sono dei samaritani, ma fanno parte di un Grande Gioco elaborato a Teheran con una doppia chiave: sostenere le ambizioni internazio­nali, bilanciare la spinta delle monarchie

Dopo la guerra del Golfo Quattordic­i anni dopo la guerra Usa all’Iraq, a trarne profitto è Teheran Che beneficia anche del conflitto contro gli estremisti sunniti in Siria

sunnite che finanziano parte del jihad e sono ostili agli sciiti. Tutti hanno i loro interessi in un confronto globale, ognuno ha le sue responsabi­lità. Il settarismo, con persecuzio­ni e vendette incrociate, serve per punire l’avversario e finisce per alimentare le componenti radicali, Isis compreso.

Con l’avvento di Donald Trump è riemersa la linea dura nei confronti dell’Iran, diversi consiglier­i del presidente spingono per fermarlo. Ad ogni costo. Le prove di tensione si vedono già in alcune regioni siriane. Gli Usa non gradiscono le milizie sciite come non vogliono vedere i loro «assistenti» iraniani. Timori che si riflettono in Israele. Domenica il premier Netanyahu ha respinto il recente accordo Usa-Russia per il cessate il fuoco nel sud della Siria in quanto favorisce Teheran. Nello Stato ebraico si aspettano che nel prossimo scontro con l’Hezbollah vi saranno falangi di sciiti, gli stessi che oggi vediamo dare battaglia a insorti siriani e Isis.

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