Parole, movente vita privata La sconcertante semplicità del male
La storia di Yara Gambirasio non verrà ricordata per il suo assassino. «Tutto qui?». Lo stupore delle madri che il pomeriggio del 16 giugno 2014 assistevano nel bar del Centro sportivo di Brembate all’arresto quasi in diretta di uno sconosciuto muratore di Mapello accusato di essere l’autore dell’omicidio di una ragazza che fino un anno prima giocava con le loro figlie, non si è mai del tutto dissolto.
L’inadeguatezza al ruolo di Massimo Giuseppe Bossetti ha sempre continuato ad aleggiare su questa tragedia, è diventata essa stessa un elemento della vicenda processuale. Perché l’hanno frugata in ogni anfratto, talvolta violata, fino a giungere al sequestro delle pagelle delle figlie, l’hanno rivelata su quotidiani e tabloid in ogni dettaglio più o meno pruriginoso, ma alla fine la sua era una vita come le altre.
Il soprannome di «favola» che gli hanno affibbiato i compagni di cantiere ed è stato letto come la prova di una intima inclinazione alla menzogna, non ha retto alla prova del tempo, era retrodatato ma coniato dopo l’arresto con il consueto e malevolo senno di poi. L’uomo condannato in primo grado per il più atroce e infame dei crimini è sempre stato quel che appariva. Una persona ed eventualmente un assassino monodimensionale, dalla vita piatta, che certo non significa vuota, di una semplicità che lo escludeva dal novero dei nomi maledetti della cronaca nera, senza la dimensione da tragedia greca di una Annamaria Franzoni, senza aver commesso un atto che più degli altri definisce il suo tempo come fece Pietro Maso.
Persino il movente è banale, il più antico del mondo. Yara è stata uccisa per un raptus sessuale, per la fantasia chissà quanto a lungo covata di un predatore che forse neppure sapeva di esserlo. Bossetti parlava poco e si abbronzava molto, due «bagni» di sole artificiale alla settimana. Quand’era a casa, supponiamo facesse il padre e il marito di tre bambini, e siamo stati costretti ad apprendere delle sue frequentazioni online, i film hard visti con la moglie Marita, le ricerche su Google di giovani adolescenti, ma il consumo di pornografia su Internet non è certo una sua peculiarità esclusiva.
Le conversazioni intercettate in carcere mostrano una notevole semplicità di base, ogni tre parole subentrava il tipico intercalare bergamasco che fa riferimento a una parte anatomica femminile, a interrompere frasi e pensieri che gli psicologi all’ascolto definivano facendo ricorso a una certa diplomazia «di sconcertante semplicità».
Con i colleghi forse favoleggiava di donne e ricchezze che non aveva. Ogni domenica portava le paste a sua madre Ester e all’uomo che ha sempre ritenuto essere suo padre, un’altra vittima innocente di questa tragedia. L’attrazione con la moglie Marita stava svanendo dopo oltre vent’anni di conoscenza e di matrimonio, in questi anni non ci è stato risparmiato alcun dettaglio, ma anche qui siamo nell’alveo di una normale vita di coppia. La storia tra i due coniugi è diventata feuilleton solo dopo l’arresto e lo stravolgimento che quell’evento ha portato nella famiglia Bossetti, con il tradimento di lei, le urla di dolore in carcere di lui, la riconciliazione seguente e apparente. Tutto qui. Se c’è dell’altro, e deve esserci per forza, «Ignoto 1» resta ancora tale, a parte il nome e il cognome.
Anche la solita contrapposizione tra innocentisti e colpevolisti che qui da noi diventa sempre astiosa, tifo da curva Sud, come se davvero in campo ci fossero due squadre, non si è mai basata sulla personalità dell’imputato. Come fosse una nota a margine, scritta in una lingua incomprensibile, che non consente di trovare appigli per l’una o l’altra tesi. In fondo siamo ancora tutti fermi al giorno dell’arresto, ognuno con le proprie convinzioni, che non riguardano «lui», il presunto assassino di Yara. Gli indizi fattuali contro il muratore, il passaggio ripetuto del suo Iveco Daily intorno alla palestra, l’aggancio della sua utenza alle celle poco distanti